L’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto costringe gli Stati dell’Unione Europea a verificare la compatibilità degli obiettivi di riduzione delle emissioni di anidride carbonica con la competitività dell’Europa nei confronti dei Paesi che non hanno ratificato il Protocollo di Kyoto, come Usa e Australia, e di quelli che non hanno obblighi di riduzione, come Cina e India. L’obiettivo europeo, corrispondente ad una riduzione delle emissioni – entro il 2008 – dell’8 per cento rispetto ai livelli del 1990, è stato ripartito tra gli Stati membri (burden sharing) con la decisione del Consiglio dei Ministri dell’Ambiente della Ue del 17 giugno 1998 che assumeva come punto di riferimento il rispetto degli obiettivi di riduzione attraverso il ricorso a politiche e misure nel mercato interno della Ue, limitando il ricorso ai crediti generati – a basso costo – nei paesi extraeuropei attraverso i meccanismi di Joint Implementation (Ji) e Clean Development Mechanism (Cdm). La maggioranza dei paesi europei e la Commissione consideravano questi crediti un sotterfugio politically un-correct.
Il “burden sharing” europeo
I maggiori oneri di riduzione risultano a carico dei paesi che nel 1990 avevano una struttura produttiva a bassa efficienza e ad alto impiego di carbone (Gran Bretagna -12,5 per cento, Germania – 21 per cento). Tuttavia, in questi paesi i costi “marginali” di riduzione risultavano relativamente ridotti, perché il recupero di efficienza coincideva con la crescita economica dei rispettivi sistemi nazionali. Nonostante questa condizione “vantaggiosa”, sia Germania sia Gran Bretagna, segnalano difficoltà crescenti a rispettare l’obiettivo di riduzione senza modificare le strategie e le politiche assunte. Per altri paesi, che devono recuperare un gap di sviluppo rispetto alla media europea, è stato stabilito un limite alla crescita delle emissioni: Portogallo (+28 per cento), Grecia (+25), Spagna (+15), Irlanda (+13). Anche in questi paesi la crescita delle emissioni è molto al di sopra dei livelli previsti, e solo un massiccio ricorso ai “crediti” Ji e Cdm consentirà il rispetto degli obiettivi.
Ai paesi che avevano già raggiunto un’elevata efficienza energetica nel settore industriale, come Italia e Olanda, è stato attribuito un obiettivo di riduzione più modesto in valori assoluti (-6,5 per cento e -6 per cento), che richiedeva tuttavia un costo marginale più elevato a causa dei livelli di efficienza già raggiunti. L’impegno di riduzione accettato dall’Italia nel 1998, però, non considerava l’obiettivo della sicurezza energetica, che invece è stato assunto come priorità nazionale a partire dal 2001 con il cosiddetto decreto “sblocca centrali”. L’obiettivo della sicurezza energetica cambia lo scenario, perché le emissioni tendenziali di anidride carbonica al 2010 per il settore elettrico hanno una crescita di oltre il 20 per cento, e rende più impegnativo l’obiettivo di riduzione assegnato all’Italia.
Il Cipe ha approvato nel 2002 il “Piano di Azione Nazionale per la riduzione dei livelli di emissione dei gas serra e l’aumento del loro assorbimento”, che individua i programmi per la riduzione delle emissioni più coerenti con l’obiettivo della modernizzazione e dell’aumento di efficienza dell’economia italiana, e che consentano il maggior risultato con il minor costo, come indicato dalla legge di ratifica del Protocollo di Kyoto. A livello nazionale, sono state individuate misure che comportano un costo marginale inferiore a 8 euro/ton, ovvero al di sotto del valore medio dei permessi di emissione nel mercato europeo, nei seguenti settori: i trasporti (responsabili di oltre il 30 per cento delle emissioni), generazione distribuita di elettricità e calore e aumento dell’impiego delle fonti rinnovabili, alcuni settori dell’industria e dei servizi, nei quali è possibile ridurre ulteriormente i consumi energetici, il settore residenziale (con particolare riferimento alle caldaie, agli elettrodomestici, all’illuminazione ed ai dispositivi elettrici), i rifiuti, sia per la generazione di energia che per l’eliminazione delle emissioni di metano dalle discariche, l’eliminazione dell’acido adipico dai processi industriali e l’aumento e la migliore gestione delle aree forestali e boschive per l’assorbimento del carbonio.
A livello internazionale, sono state individuate, e sono in corso di attuazione, due tipologie di misure: promozione di progetti di cooperazione nei settori energetico, industriale e forestale, assumendo come criterio di riferimento l’apertura di nuovi mercati alle tecnologie ed alle imprese italiane, acquisto di crediti generati da progetti Ji e Cdm mediante “Italian Carbon Fund” istituito presso la Banca Mondiale con fondi del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio. Sulla base di queste misure, il rispetto del Protocollo di Kyoto dovrebbe comportare per l’Italia un costo – al netto dei benefici secondari – pari a circa 3,5 – 4 miliardi di euro. Si tratta di un costo comunque rilevante, se si considera che la riduzione delle emissioni dell’Italia corrisponde a meno dello 0,5 per cento della riduzione delle emissioni globali di Co2.
riconsiderare il Protocollo
Il rapporto tra i costi e i risultati, per l’Italia come per gli altri Stati Membri della Ue, mette in evidenza la necessità di riconsiderare il ruolo del Protocollo di Kyoto, sia in relazione agli effetti sulla competitività dell’Unione Europea, sia in relazione ai risultati ambientali tenendo conto degli obiettivi indicati dagli organismi internazionali per la protezione del clima globale. A questo proposito, la Conferenza internazionale “Energia e Ambiente” organizzata dalla Presidenza inglese del gruppo G8, e il “Consiglio di Primavera” dell’Unione Europea, offrono una nuova prospettiva alla possibilità di condividere politiche ambientali, economiche ed energetiche globali. In occasione della Conferenza di Londra i rappresentanti delle maggiori economie, ovvero il gruppo G8 allargato a Cina, India, Corea, Brasile, Sud Africa, Indonesia, Iran, Australia, Spagna, Nigeria, hanno condiviso i dati di riferimento strategici per il futuro ambientale ed energetico del pianeta: il consumo mondiale di energia aumenterà di circa il 55 per cento entro il 2030, spinto in particolare dalla crescita delle economie emergenti dell’Asia e dell’America del Sud; se il sistema energetico mondiale continuerà ad essere dominato dai combustibili fossili e dalle tecnologie meno efficienti, le emissioni globali di Co2 aumenteranno entro il 2030 di circa il 60 per cento rispetto ai livelli del 1990; gli scenari di crescita delle emissioni sono in evidente contrasto con il Terzo Rapporto sul Clima del Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite, secondo il quale una riduzione delle emissioni globali del 50-60 per cento rispetto ai livelli del 1990 dovrebbe essere raggiunta nel periodo 2040-2060; il Protocollo di Kyoto assicura una risposta parziale e preliminare agli obiettivi di riduzione globale delle emissioni. I paesi industrializzati che hanno ratificato il Protocollo raggiungeranno infatti, entro il 2012, una riduzione delle emissioni globali inferiore al 2,5 per cento. E se gli stessi paesi volessero proseguire nell’attuale “format” del Protocollo di Kyoto dopo il 2012, entro il 2030 le emissioni dei paesi industrializzati – Usa esclusi – potrebbero essere ridotte del 16 per cento rispetto ai livelli del 1990, corrispondenti a meno del 5 per cento delle emissioni globali. È necessaria una strategia più ampia a livello globale, oltre il Protocollo di Kyoto, per assicurare nello stesso tempo una risposta adeguata alla crescita della domanda di energia e la riduzione delle emissioni globali, avendo presente che non devono essere compromesse né la crescita delle economie emergenti che stanno faticosamente uscendo dal sottosviluppo, né la competitività delle economie sviluppate di Usa, Europa e Giappone. Per affrontare con successo questa difficile sfida è necessario immaginare e realizzare una strategia innovativa a livello globale che comprenda: uno sforzo straordinario di cooperazione internazionale per la ricerca e l’innovazione delle politiche energetiche, al fine di ridurre “l’intensità di carbonio” attraverso lo sviluppo e la disseminazione delle tecnologie ad emissioni zero (nucleare e rinnovabili), delle tecnologie dell’idrogeno, delle tecnologie per l’aumento dell’efficienza nella produzione e negli usi dell’energia; l’adozione, nelle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio, degli standards più avanzati per la produzione e la distribuzione delle tecnologie e dei servizi energetici; la disponibilità a basso costo delle nuove risorse energetiche pulite e sicure per i paesi più poveri.
Una nuova visione dell’Europa
Appena dopo la riunione di Londra, il Consiglio di Primavera dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea ha aggiornato la cosiddetta “strategia di Lisbona”. Il documento finale, per la prima volta negli ultimi cinque anni, non contiene impegni per una riduzione unilaterale delle emissioni dei gas serra dopo il 2012. Mentre viene sottolineata l’esigenza di affrontare la sfida dei cambiamenti climatici e della riduzione delle emissioni dei gas serra attraverso la promozione di una iniziativa globale che non metta a rischio la sicurezza energetica e la competitività dell’economia europea. Si tratta di una cambio significativo della prospettiva dell’Ue, che finalmente sembra uscire dall’isolamento degli ultimi anni, che non ha contribuito allo sviluppo sostenibile del pianeta e ha contribuito a compromettere la competitività della nostra economia, come rilevato anche dal Rapporto Kok.
* Direttore generale del Ministero dell’Ambiente