li osservatori a corto di fantasia li hanno subito battezzati “Full Monty”, in omaggio ai sei disoccupati di Sheffield dell’omonimo e fortunato film. Ma le differenze fra il gruppo di amici licenziati dalle loro ditte che si sono dati come riferimento il Centro Sviluppo Occupazione di Milano e gli “squattrinati organizzati” del film di Peter Cattaneo sono più forti delle somiglianze. Intanto si tratta di dirigenti o affini e non di metalmeccanici, perché nel nord Italia a tagliar posti non sono le acciaierie, ma le multinazionali delle telecomunicazioni; poi non c’è di mezzo proprio nessuno spogliarello, ma un frenetico va e vieni di curriculum, una ragnatela sempre ritessuta di contatti, un accumularsi prezioso di nuovi saperi ed esperienze; e soprattutto i personaggi non sono macchiette di simpatici sfigati, che in comune hanno appunto solo la sfiga di aver perso il lavoro a 40 anni, ma gente con i coglioni che è uscita viva da sotto il treno.
Se un punto di contatto c’è fra l’atmosfera tragicomica di “Full Monty” e la vicenda dei disoccupati combattenti di Milano, è la metaforica necesità di spogliarsi per ricominciare daccapo. Lo dice bene Andrea, direttore di divisione, dodici anni di esperienza, che un bel giorno è uscito di casa con auto e Pc, ma la sera è rientrato a piedi e a mani vuote perché lo avevano licenziato. «Quando ci si conosce con gente nuova una delle prime domande che ci si fa è “che lavoro fai?”. Perché ciascuno di noi si identifica con quello che fa. Quando sei licenziato, improvvisamente non sai più chi sei e te ne vergogni davanti agli altri. La mattina tua figlia ti dice: “Papà, non vai a lavorare?”, e tu ti senti morire. Uno si sente veramente una merda quando gli capita quello che è successo a me, perché il mondo ti guarda e ti considera per quello che fai, per quello che hai. Quando il lavoro non ce l’hai più, ciò che ti costituisce è veramente difficile da riconoscere». «Ho passato un periodo in cui non salutavo più nessuno – dice Raffaele, licenziato da una multinazionale italiana – perché sentivo la compassione nello sguardo degli altri, e non la sopportavo. Sai che ti guardano e pensano “poverino”, e vorresti mandarli affanculo, ma non puoi, e allora ti senti ancora più depresso».
Ottomila manager a spasso nel Milanese
«Per prima cosa devi ripensare te stesso, rimettere in discussione l’identificazione fra la tua persona e quel che eri a livello professionale. Devi riscoprire quel livello della tua umanità che non coincide col fare, ma che rende possibile il fare, ma non puoi riuscirci da solo, finirebbe che ti ammazzi; infatti quel livello è un rapporto umano».
La disoccupazione dirigenziale in Italia riguarda uno strato crescente di popolazione ed è priva di reti di protezione sociali. Secondo dati di Federmanager Lombardia nella sola provincia di Milano sono circa 8mila i manager a spasso che hanno perduto il posto negli ultimi anni. La loro ricollocazione va a rilento. Confidano alla sede italiana della Eric Salmon, una delle compagnie per il reclutamento di dirigenti di alto livello più famose del mondo, che le richieste da parte dei clienti sono scese dalle quattro alla settimana del 2000 a una ogni due mesi nel 2003. Che cosa sta succedendo? «Siamo in una fase di stagnazione, – spiega Marco, un direttore di stabilimento licenziato dopo otto anni di servizio nella stessa ditta – e le imprese procedono a fusioni non per aumentare i profitti, ma per ridurre i costi. E l’Italia ci rimette sempre perché ha un costo del lavoro più alto rispetto agli altri paesi europei e una legislazione che rende difficili i licenziamenti. I dirigenti italiani diventano perciò la vittima designata: costano all’impresa il doppio dei dirigenti degli altri paesi e sono gli unici italiani facilmente licenziabili, in quanto non coperti dal famoso articolo 18. Quando vengono fatti gli accorpamenti, puntualmente la regione italiana viene aggregata alla Spagna o alla Francia in una più ampia regione sud-europea, e i dirigenti italiani vengono scartati come doppioni». «Quando ero direttore di divisione – racconta Andrea – ho fatto il benchmark dei miei costi, e ho scoperto che la filiale italiana era quella col più alto costo del lavoro, benché il gruppo operasse anche in paesi come Francia e Svezia, dove il carico fiscale è notevole. Alla convention degli amministratori la mia omologa inglese mi diceva: “Ma come fai, con quei costi?”. Lei aveva il triplo dei miei addetti, e un costo complessivo identico al mio!».
Sindacato inetto e imprenditori prevenuti
In una realtà del genere il sindacato si muove con la disinvoltura di un ippopotamo sul palcoscenico di un balletto classico. «In questi casi i sindacati fanno solo casino – spiega Stefano –, minacciato di licenziamento con un pretesto, per avere aderito a uno sciopero di solidarietà con un padre di famiglia trasferito di stabilimento a 400 km da Milano senza alloggio o benefit per costringerlo alle dimissioni. Quella contro di me e alcuni altri era un’evidente manovra intimidatoria, e con l’avvocato abbiamo deciso di diffidare l’amministrazione per iscritto perché c’era una pesante violazione della privacy, invece il sindacato consigliava di avviare una trattativa con l’impresa sui livelli occupazionali, una cosa assolutamente demenziale. Se ne sente sempre parlare, ma è davvero impressionante toccare con mano l’anacronismo del sindacato rispetto alle nuove realtà del lavoro, la sua totale impotenza e incapacità di supportare anche solo tecnicamente le persone che hanno problemi. Immaginate un’assemblea di giovani rampanti della new economy e il sindacalista Cgil che dice “per ogni questione fate riferimento al compagno Italo”. Una cosa deprimente».
Altrettanto deprimente è il circolo vizioso in cui il licenziato si trova quando comincia a far circolare il suo curriculum. «Tutti si riempiono la bocca con la “flessibilità”, – dice Simone – tutti sanno che i licenziamenti di oggi dipendono esclusivamente da politiche per contenere i costi, eppure un licenziamento subìto resta un marchio di infamia. Permane il pregiudizio che se uno si è fatto licenziare significa che non è all’altezza. “Che faccio, prendo gli scarti degli altri?” è ancora l’opinione dominante fra gli imprenditori». «Ridimensioni le tue pretese economiche? Accetti mansioni inferiori a quelle che avevi prima? Peggio che peggio – spiega Andrea –, ti terranno fuori pensando che vuoi soltanto inserirti presso di loro temporaneamente, in vista di un’offerta migliore. “Perché dovrei investire risorse e tempo su di te, che mi lascerai appena potrai?”». «Anch’io ragionavo così quando assumevo personale – si ricorda Marco, volevo dei giovani preparati e grintosi provenienti dal lavoro precario, gente che entrasse in azienda per restarci a vita. Quello passato da un licenziamento, magari era un genio, ma non lo prendevamo in considerazione».
Lo sguardo degli amici
Si può stare dentro a una situazione così, in cui il nuovo posto di lavoro tarda a venire, senza impazzire? Si può tirar fuori un bene da un male? «Se mi chiedi come sto, – dice Marco, da sei mesi senza posto fisso – io ti rispondo che sto benissimo, perché il fatto di essere a contatto con persone che hanno a cuore la mia persona mi aiuta a osservare il bicchiere mezzo pieno. Quel che vivo adesso riempie il mio tempo quasi quanto prima lo riempiva il lavoro, e in un modo molto meno distratto: prima arrivavo stordito alla sera con la testa piena di problemi operativi, e il mondo fuori non esisteva. Improvvisamente l’involucro in cui ho vissuto si è rotto, ed è apparsa la realtà, inopinatamente grande, varia e piena di storie. Sto incontrando tante persone attive in quello che era il mio settore, e che prima non avevo il tempo di conoscere. Si intrecciano storie, punti di vista, opportunità, nascono rapporti con imprenditori, professionisti e “cacciatori di teste” che prima non avevo mai nemmeno preso in considerazione. Questo è un lavoro di “marketing di se stessi”, di promozione della propria figura professionale, di contatti vivi che ogni dirigente deve coltivare, perché è la sua “rete di sicurezza” nell’eventualità che perda il posto. È un lavoro che a suo tempo io non ho fatto, ma ora sto recuperando ed esorto tutti a tenere a mente la lezione». «La lezione che tutti stiamo imparando – conclude Andrea – è la tensione costante a stare intensamente sulla realtà. Questo non la semplifica, perché il dolore, la fatica e la sensazione di aridità restano, ma la rende positiva. Non auguro a nessuno la mia situazione, perché il dolore di per sé non è mai positivo, lo diventa solo in forza di una Presenza, e questa è l’amicizia, cristiana, che sto sperimentando io, un’isola felice, aperta a tutti». Avviso ai naviganti: le coordinate per raggiungere l’isola sono: Consorzio Sviluppo Occupazione Via Poerio, 14 – 20129 Milano.