Ora i taleban afghani accettano di trattare con gli Stati Uniti tutte le questioni, compresa quella di Ossama Ben Laden, dopo che è stata paventata la minaccia delle sanzioni internazionali. Non c’è dubbio che il miliardario saudita considerato cervello e finanziatore dei movimenti integralisti islamici, abbia tolto negli ultimi tempi il primato dei “nemici più pericolosi” a Saddam Hussein e a Muammar Gheddafi. Ma sarebbe una poco saggia semplificazione della realtà ricondurre, come una volta, tutte le azioni terroristiche a una sola entità, a un solo gruppo o a un solo Paese burattinaio (Iran, Libia, o Sudan). La multietnicità di molti gruppi islamici è ormai un dato di fatto riconducibile alle esperienze comuni in Afghanistan, Bosnia e Cecenia, e tuttavia ciò non basta per affermare che tutti i movimenti obbediscono ad una sola “centrale del terrorismo”.
Tutto cominciò con l’Afghanistan Ci sono sfumature ideologiche tra un gruppo e un altro, così come diversità di obiettivi. Negli anni Settanta, i movimenti radicali islamici agivano in nome di una causa precisa, quella palestinese. Oggi, la situazione appare molto più ingarbugliata. Gli estremisti islamici esigono molte altre cose: la partenza degli americani dall’Arabia Saudita, la fine dell’embargo contro l’Irak, il ritiro indiano dal Kashmir, l’instaurazione di un regime islamico ad Algeri, la creazione di una repubblica caucasica musulmana. Le sigle, di conseguenza, non si contano più e formano all’interno di ciascun Paese una vera “nebulosa” di cui nessuno è in grado di dire se obbedisca a una sola centrale o no.
In Algeria spicca il Gia (Gruppo islamico armato), nato nel 1992 dalla fusione di alcuni quadri del disciolto Fis, il Fronte islamico della salvezza, con i cosiddetti “afghani”, ossia combattenti della guerra antisovietica in Afghanistan. Fedele rappresentante dell’integralismo puro e duro, il Gia si è opposto a tutte le soluzioni proposte alla crisi algerina, compresa la Piattaforma di Roma. L’appello è alla “instaurazione del califfato per mezzo della lotta armata”.
In Egitto, il gruppo più attivo è quello della Gamaa islamiya. Nata all’inizio degli anni Settanta negli ambienti universitari, la Gamaa si è sviluppata attraverso l’organizzazione di “campi estivi islamici” nel momento in i rivali “Fratelli musulmani” subivano una dura repressione da parte del governo. Oggi, gran parte dei suoi leader si trovano in cui i carcere, ma quelli fuggiti all’estero hanno costituito una specie di Consiglio consultivo di cui fanno parte lo sceicco cieco Omar Abderrahman, attualmente in prigione negli Usa con l’accusa di essere dietro l’attentato al World Trade Center di New York.
Pullulano tuttavia altri gruppi fra cui la Jihad islamica, responsabile dell’assassinio di Anwar el-Sadat nel 1981.
In Palestina dominano la scena radicale Hamas e un’altra Jihad islamica. Il primo, acronimo arabo di Movimento della resistenza islamica, è nato all’inizio dell’Intifada ad opera di alcuni militanti dei Fratelli musulmani, tra cui lo sceicco Ahmed Yassin. Secondo la sua Carta, la lotta armata sarebbe l’unico mezzo per liberare la Palestina poiché “non esiste alcuna soluzione al problema palestinese al di fuori della Jihad per cui tutte le iniziative e le conferenze di pace non sono altro che una perdita di tempo”.
La strategia di Hamas è precisa: limitarsi alle operazioni all’interno di Israele e solo contro obiettivi militari. Gli attentati contro obiettivi civili vengono in questa ottica presentati come una legittima azione di rappresaglia contro dei massacri perpetrati a danno dei civili palestinesi. In Libano, anche l’Hezbollah (Partito di Dio) sciita ha fatto della “resistenza islamica” contro le truppe israeliane che occupano la parte meridionale del paese l’epicentro delle sue azioni militari. Questo non risparmia tuttavia il movimento filo-iraniano dall’accusa di essere dietro la maggior parte dei rapimenti di occidentali durante la guerra libanese o, come vuole la giustizia argentina, di essere responsabile dell’attentato contro l’ambasciata israeliana a Buenos Aires nel marzo 1992 che causò 22 morti e oltre 200 feriti.
In Sudan il radicalismo islamico è salito da ormai un decennio al vertice dello Stato. Hassan al-Turabi, l’eminenza grigia del regime di Khartum, non ha peli sulla lingua. In un recente libro espone con franchezza la sua visione del mondo: dalla sorte delle donne in tempo di guerra che i vincitori musulmani possono rapire, a quella delle “mogli insubordinate” che i mariti possono frustare, alla democrazia occidentale viziata da un settarismo che ha escluso la religione dalla politica. Nel Pakistan, la prima repubblica islamica al mondo, sono attivi il gruppo sunnita Sipah-e-Sahaba e quello sciita Tehrik-e-Jafria, ambedue armati fino ai denti, che ricevono aiuti rispettivamente dall’Arabia Saudita e dall’Iran. Un gruppo radicale nato nel 1988, Hizb-e-Jihad, fa della Jihad nel Kashmir il fulcro delle sue attività.
L’infezione è arrivata in Europa Ma molti movimenti radicali operano anche nel cuore dell’Europa. A Londra agiscono indisturbati 26 dei 30 movimenti terroristici messi all’indice dagli Usa, alcuni dei quali aderiscono apertamente alle tesi di Ben Laden sulla “guerra santa contro i crociati e gli ebrei”. Omar Bakri, leader di “Al-Muhagirun” (gli Emigranti), è uno di loro. 40 anni, di origine siriana, Bakri era un tempo alla testa del Partito di liberazione, attivo tra gli universitari musulmani in Gran Bretagna, ma il suo gruppo fu bandito per aver appoggiato i dirottamenti aerei.
Solo di recente Londra si è accorta che questi gruppi, che invitano a spargere il sangue dei britannici, vanno smantellati. La Francia ne sa qualcosa. A dispetto del mito dell’integrazione, Parigi aveva prima constatato che le circa duemila neonate associazioni islamiche – per il 95 per cento identificabili solo attraverso una casella postale – che dichiarano intenzioni religiose, di sostegno scolastico o sportivo, reclutano e fanno proseliti per la causa estremista. Imam provenienti dal Pakistan o dall’Egitto che si nascondono nella clandestinità incominciano un’opera di indottrinamento presso giovani che non hanno conosciuto fino a quel momento alcuna religione. Li si convince che i loro delitti non possono essere classificati come delinquenza, ma come “guerra santa” contro gli infedeli, per instaurare un giorno la repubblica islamica nel Paese. Da lì a diventare soldati di Dio il passo è breve.