Sulla prima pagina del Corriere della sera di Domenica 20 Febbraio, è apparso un piccolo saggio di Ernesto Galli della Loggia, storico e intellettuale tra i più attenti studiosi delle evoluzioni della vita sociale, dal titolo: “Quell’Italia che vive nell’Isola dei Famosi”. In questo intervento il giornalista riversa tutto il suo disprezzo nei confronti della realtà televisiva italiana, responsabile “nello spazio strabordante dei programmi di intrattenimento” della “manipolazione distruttiva dell’antropologia italiana”. Che paroloni! Non contento, il professore insiste: “In quei programmi si mischiano presentatori guitti, comicastri, sound triviali, corpi seminudi, trovate quizzistiche da quattro soldi e torrenti di chiacchiere sul nulla”.
Sospettiamo che quel giorno il nostro buon editorialista si fosse svegliato con la luna storta: un quadro così devastante sulla situazione dei palinsesti televisivi italiani ci sembra un tantinello esagerato, anche se alcuni spunti sono reali. Certo, se ci si ferma alla visione de “Il Grande Fratello” e “Isola dei Famosi”, è concreto il rischio di farsi travolgere da sentimenti di tristezza e sgomento per come, pur di apparire in video, ci si abbrutisca, perdendo la propria dignità; ma, vivaddio, la televisione non è solo questo ed è un po’ sporco il giochetto di considerarla l’unica responsabile della “disgregazione delle grandi periferie metropolitane”. La televisione è, si, un contenitore pieno di nefandezze, eppure riesce ancora a far uscire dal cilindro emozione e cultura, momenti di serenità e informazione, sta a chi guarda poter e voler scegliere. Perché la televisione è solo lo schermo attraverso il quale uomini e donne vogliono comunicare; è una comunità di lavoratori, di esperti, di artisti, di facce concrete e di storie, e se il messaggio risulta vuoto e cialtrone è perché la cultura che respiriamo è diventata cialtronesca.
Non era così agli albori, negli anni 50 quando il popolo, rimessosi in moto dopo la guerra, scoprì in questa scatola magica la possibilità di essere raggiunto e conoscere altre tradizioni del nostro territorio, per esempio con i giochi itineranti, si appassionò alle grandi storie letterarie con gli sceneggiati, completò la sua coscienza civile con le inchieste e i reportage dei grandi del giornalismo, si divertì con i grandi show del sabato sera. Certo, quella televisione con tutti i limiti, i difetti e le sirene del cosiddetto “boom economico”, era comunque costruita da uomini con una storia alle spalle, fatta di valori e rispetto del pubblico, anche se già nascevano le prime avvisaglie di quelle ideologie che ruppero con le tradizioni “borghese e liberale” e “popolare cattolica” che appartenevano alla vita quotidiana, in nome di un’utopia rivoluzionaria e collettivista.
La domanda vera che bisognerebbe farsi in una legittima disamina del ruolo televisivo sul deterioramento del tessuto sociale è capire se la crisi dei “valori” sia l’effetto dell’uso della tivù o se, più semplicemente, ciò che si veicola dal piccolo schermo sia solo lo specchio della crisi che le agenzie educative, culturali e istituzionali di questo benedetto Paese vivono, indipendentemente dall’ingombrante presenza dell’impresa televisiva. Insomma: è la tivù che detta le mode e lo stile di vita o essa è nient’altro che il tramite mediatico di qualcosa che già la società vive?
Ha tutte le sue buone ragioni, quindi, Galli della Loggia, a lanciare l’allarme, d’altra parte, la stessa tivù generalista (pubblica, commerciale, digitale o satellitare) assediata dall’aumentata fruizione dei social network internettiani e dalle infinite opzioni che la Rete offre sempre più, deve ripensare al suo ruolo, affidandosi a quei professionisti che certo non mancano, ansiosi di affrontare le nuove sfide della comunicazione.