Ecco come fa il Qatar a comprarsi Valentino, Thiago Silva e Ibra in una settimana

Di Rodolfo Casadei
16 Luglio 2012
Viaggio nel piccolo ma superpotente mondo del Qatar (e del Paris Saint-Germain) tra fiumi di petrolio e vagonate di calciatori.

Loro, sempre loro, ancora loro. La famiglia di Hamad Bin Khalifa Al Thani, emiro del Qatar, si compra tutto, in ogni settore. Dalla moda al calcio, da Valentino a Thiago Silva-Ibrahimovic-Verratti. E l’impressione è che non si fermeranno, grazie all’immensa quantità di oro nero di cui dispongono. Ma come fa la famiglia Al Thani a permettersi tutte queste follie? Ripubblichiamo qui sotto l’articolo dell’inviato speciale Rodolfo Casadei sul Qatar, un mega impero piccolo piccolo, uscito sul numero 13/2012 di Tempi. Se invece volete sapere chi è il presidente compratutto del Paris Saint-Germain, leggete qui.

Guardato da fuori, proprio non ci si raccapezza. Se la politica internazionale, le alleanze strategiche, le ideologie significano ancora qualcosa, un posto del genere semplicemente non dovrebbe esistere. Uno Stato che ospita il Comando delle forze armate degli Stati Uniti in Medio Oriente e allo stesso tempo irradia il verbo antiamericano di Al Jazeera, che è nata e ha sede proprio lì; mercanteggia con Israele nel mentre che finanzia Hamas e ostenta ottimi rapporti col vicino Iran; offre il podio di summit internazionali sia a Tzipi Livni sia a Mahmoud Ahmadinejad; si dichiara wahabita e ospita islamisti intransigenti come il telepredicatore Yusuf al Qaradawi, si offre di aprire un ufficio di rappresentanza dei talebani afghani, trama per far sì che la Fifa ammetta il velo islamico nel calcio femminile, ma nello stesso tempo concede terreni e libertà di culto perché possano sorgere dentro ai suoi confini chiese cattoliche, siro-malabariche, maronite, copto ortodosse e chiama le migliori università americane a impiantare i loro campus.

E ancora: un paese che prima si costruisce l’immagine di onesto mediatore, terreno neutro per ogni tipo di negoziato, sulla base di una costituzione dove all’articolo 7 sta scritto che «la politica estera dello Stato è basata sul principio del rafforzamento della pace e della sicurezza internazionali attraverso l’incoraggiamento della risoluzione pacifica delle dispute internazionali (…) e sulla non interferenza negli affari interni di altri Stati»; e poi improvvisamente si toglie la giacchetta da arbitro e scende in campo parteggiando per una squadra contro l’altra: in Libia dalla parte dei ribelli anti-Gheddafi, in Siria dalla parte degli avversari dell’ex alleato Bashar al Assad. Il paese protagonista in tutti gli sforzi per una soluzione diplomatica delle crisi del mondo arabo nel secondo decennio del XXI secolo – dal Libano allo Yemen, dal Darfur alle guerre intestine fra Al Fatah e Hamas – che diventa l’unico paese arabo che bombarda insieme ai jet della Nato le forze armate e le città di un paese fratello come la Libia. Che ottiene dalla Lega Araba la sospensione della Siria e preme su Russia e Cina (qualche migliaio di volte più grandi di lui) perché permettano al consiglio di Sicurezza dell’Onu di sanzionare il regime di Assad. Una monarchia assoluta dove tutti i posti di potere sono spartiti fra i membri di una sola, litigiosa, famiglia (gli Al Thani) che ospita e finanzia la Fondazione per la democrazia araba e sposa la causa delle rivoluzioni democratiche (nel senso che intendono consegnare il potere a chi vincerà libere elezioni) del mondo arabo.
Da uscirne pazzi.

Tre anni fa John Kerry, candidato democratico sconfitto alle presidenziali del 2004 e presidente della commissione Esteri del Senato americano, disse: «Il Qatar non può essere un alleato degli Stati Uniti il lunedì, e inviare quattrini ad Hamas il martedì». Il Qatar ha continuato a inviare soldi ad Hamas, altri ne ha inviati agli islamisti di Ennahda che hanno vinto le elezioni in Tunisia e ai ribelli libici della stessa tendenza (insieme ad armi e vettovaglie); e fino a quando non è scoppiata la rivolta in Siria, a Doha arrivava spesso in visita da Damasco Khaled Mashal, il leader di Hamas, che nella capitale del Qatar ha vissuto fra il 1999 e il 2001 e vi torna per visitare suo figlio Omar Abdel Qader, residente permanente. John Kerry, e anche quelli che stanno molto sopra di lui, se ne sono dovuti fare una ragione, anche perché di ospiti sospetti nel paese dell’emiro Hamad Bin Khalifa Al Thani ne passano parecchi: dai parenti di Saddam Hussein a quelli di Osama Bin Laden fino a Leila Trabelsi, la moglie del deposto presidente tunisino Ben Ali che dalla vicina Arabia Saudita si reca spesso a Doha a fare shopping, senza timore di imbattersi in Rachid Ghannouchi, il leader carismatico di Ennahda che a Doha è stato ospite di Qaradawi, residente qatariota naturalizzato di antica data.

Tutto questo minestrone ha spiegazioni razionali. Deve averle, perché oggi il Qatar non è più una stravaganza per patiti di esotismi geografici, ma la spoletta della bomba rappresentata da una nuova ondata di proteste arabe, che potrebbero scatenarsi se dovesse cadere il regime di Damasco contro cui Doha si sta battendo a viso aperto (dopo esserne stato un fidato amico). A stare a sentire Robert Fisk, il premiatissimo e sopravvalutatissimo corrispondente dell’Independent dal Medio Oriente, il Qatar agisce mosso da «British Empire-style ambitions», ambizioni in stile Impero Britannico. Come al solito il guru antioccidentale esagera per fare effetto: nel 1922, all’apogeo della sua espansione, il Regno Unito, grande poco meno dell’Italia, era un paese di 44 milioni di abitanti che dominava 458 milioni di esseri umani sparsi in tutti i continenti; il Qatar, per parte sua, ha le dimensioni dell’Abruzzo appena e ha una popolazione indigena di non più di 200 mila abitanti, essendo gli altri 1,5 milioni che abitano l’emirato stranieri immigrati per motivi di lavoro. Il Regno Unito era una media potenza che si stava arricchendo grazie al commercio internazionale e che è diventato ricchissimo grazie all’imperialismo; il Qatar è un paese piccolissimo e ricchissimo che ha deciso di competere per un ruolo di leadership dentro a un mondo arabo in piena crisi di crescita, dopo aver praticato la strategia dell’andare d’accordo con tutti e del far comodo a tutti. Ma oggi come ieri l’imperativo di Doha è lo stesso: sopravvivere, nella duplice accezione della continuata esistenza dello Stato indipendente del Qatar e della sopravvivenza della dinastia degli Al Thani.

Come si mantiene il potere
In Medio Oriente essere piccoli e ricchissimi non è necessariamente una benedizione. Ricordate il Kuwait? A Doha e negli altri emirati del Golfo se lo ricordano tutti i giorni: aveva dei contrasti con l’Iraq per lo sfruttamento di un giacimento di petrolio che attraversava il confine dei due paesi, e una mattina d’agosto del 1990 Saddam Hussein mandò i carri armati a cancellarlo dalla carta geografica. Per restituirgli l’indipendenza ci volle una guerra terrificante che coinvolse più di 30 paesi e causò decine di migliaia di morti. Il Qatar dista meno di 300 chilometri dalle coste dell’Iran, col quale condivide il giacimento marino di North Dome, sede di 1.800 milioni di miliardi di metri cubi di gas naturale, e confina con l’Arabia Saudita, che non ha mai smesso di considerare gli abitanti del Qatar suoi sudditi e che ha fomentato tentativi di colpi di Stato attraverso elementi di tribù locali.

Quando nel 1995 Hamad Bin Khalifa Al Thani è salito al trono deponendo con un colpo di Stato suo padre, ha capito subito che non gli sarebbe bastato essere uno degli uomini più ricchi al mondo, né essersi formato all’accademia militare britannica di Sandhurst, per mantenere il potere. Per garantire la sicurezza del paese dalle mire dei potenti Stati vicini si è portato in casa il quartier generale di Centcom, il comando delle forze armate degli Stati Uniti per le operazioni in Medio Oriente; per garantirsi contro l’estremismo islamico e per attirarsi le simpatie dell’opinione pubblica di tutto il mondo arabo si è inventato Al Jazeera, la prima tivù globale in lingua araba.

Al Thani ha vinto la sua duplice scommessa: Al Qaeda e l’Iran non l’hanno accusato di tradimento e sacrilegio per aver portato una base americana su suolo musulmano, essendo chiara la natura antisaudita dell’operazione; e la libertà editoriale concessa ad Al Jazeera, il conseguente successo dovuto al mix perfetto di professionalità, giornalismo militante e strizzate d’occhio all’islamismo che già allora incarnava l’opinione politica della maggioranza degli arabi, ha portato solo vantaggi all’emiro. La terza mossa, all’epoca vincente, è consistita nel trasformare il Qatar nella Svizzera diplomatica del Medio Oriente.

Nella seconda metà del decennio che è alle nostre spalle il paese è diventato il mediatore numero uno dei conflitti nella regione, strappando senza tanti complimenti il ruolo ai tradizionali protagonisti: Lega Araba, Egitto e Arabia Saudita. Che si trattasse dell’insurrezione degli huthi nello Yemen, della guerriglia nel Darfur, della contesa di confine fra Gibuti ed Eritrea, della crisi fra il governo di Fouad Siniora ed Hezbollah che rischiò di far scoppiare una nuova guerra civile in Libano nel 2008, Doha ha dato prova di un attivismo senza pari. Fino a eventi eccezionali come l’apertura di un ufficio diplomatico dei talebani afghani funzionale a una trattativa con gli americani e l’accordo del febbraio scorso fra Hamas e Al Fatah che doveva spianare la strada a un governo palestinese di coalizione e allo svolgimento di nuove elezioni. Se però si guarda il tutto più da vicino, si scopre che, con la relativa eccezione degli accordi di Doha per la soluzione della crisi libanese, tutte le altre iniziative si sono risolte in un buco nell’acqua, particolarmente deludente nel caso dei negoziati preliminari fra Usa e talebani e del protocollo d’intesa fra Abu Mazen e Mashal, disatteso subito dopo la firma nel febbraio scorso.

La politica del branding
Un piccolo paese ricchissimo può riuscire a portare al tavolo della pace i litiganti perché non ha gli interessi e le parzialità di paesi come l’America, l’Egitto o l’Arabia Saudita e perché può “comprare” la loro buona volontà, ma siccome manca di peso specifico e di potenza militare non potrà costringerli a scelte definitive. Il punto è che ad Al Thani non interessa tanto il risultato finale, quanto piuttosto l’immagine che il Qatar riesce a proiettare di sé dando semplicemente vita ai negoziati. Gli anglosassoni lo chiamano “branding”. È branding l’assegnazione al Qatar dei Mondiali di calcio del 2022; la creazione alla periferia di Doha di “Education city”, dove trovano ospitalità otto campus satelliti di altrettante università occidentali, sei americane, una francese e una britannica; le 115 destinazioni per 105 velivoli (più altri 190 ordinati, per lo più Airbus) di Qatar Airways, i 400 ettari di lusso dell’isola artificiale La Perla; l’aggressivo posizionamento nel mercato del turismo fieristico.

Con la scelta di campo a fianco dei ribelli libici e siriani Al Thani è andato ben al di là della politica del branding. In un momento di grandi rivolgimenti in Medio Oriente e Nordafrica, di debolezza congiunturale di alcuni grandi attori (Egitto, Libia, Siria, Iraq) e di inadeguatezza cronica di altri (Arabia Saudita) il Qatar lancia la sua opa per la leadership del mondo arabo. Megalomania? No, ancora e sempre istinto di sopravvivenza: fino a ieri la sicurezza stava nel farsi baricentro, oggi l’unico modo di restare in equilibrio è gettarsi in avanti.

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