Don Villa: «Sisma o virus, educare è accendere i fuochi. Mica riempire i secchi»

Di Caterina Giojelli
15 Aprile 2020
Don Giussani lo mollò a Tarcento per "stare" coi terremotati, lui s'inventò un'incrollabile paritaria. E oggi affronta la pandemia come Dio comanda

Vive e vede, “come tutti”, i giorni della pandemia, “sento il giornaliero diluvio di notiziari simili a un bollettino di guerra e primi tentativi di previsioni. A dire il vero, e questa è una curiosità, la previsione è nata contemporaneamente alla notizia della tragedia: andrà tutto bene! Mi ha colpito immediatamente lo sforzo del giornalista nel dissimulare il terrore con la maschera del sorriso rassicurante. Mi si è aperto un siparietto di vita nel terremoto del 1976 in Friuli”. Racconta don Antonio Villa che si trovava allora a Tarcento – da dove non se ne è mai andato e dove ancora guida la scuola media Monsignor Camillo Di Gasparo, formidabile paritaria (leggere per credere qui) tirata su cedendo alle implorazioni dei sopravvissuti e per quei marmocchi che gli strattonavano la giacchetta nel freddo bestiale che tirava tra tende e cucine degli alpini. “Sotto il portico della canonica una scossetta fa schizzare il parroco dalla panchina verso il cortile; rido in modo scostumato e lui si difende così: ‘Ma no, cosa credi, non è paura; il friulano non ha paura. È, come dite voi in italiano… panico!’. Caro, carissimo Monsignor Frezza!”.

Don Villa, sta equiparando la pandemia al terremoto che sconquassò il Friuli?

Lungi da me, mi fa ridere anche paragonarla a una guerra o a qualsiasi altro cataclisma. C’è solo un aspetto, questo sì addirittura identico e molto, molto serio in tutti i casi: è una lunga e dolorosa “situazione di vita” con motivazioni e dinamiche totalizzanti ma assolutamente indipendenti dalla tua volontà, destinata a finire lasciando un cambiamento. Qui è la questione, perché il risultato del suo “passaggio” risente del “come” è stata affrontata, cioè da “cosa hai imparato” a riguardo della vita. Teoricamente sono possibili solo due esiti: un miglioramento o un peggioramento. Storicamente, purtroppo, pare abbia ragione Claudio Chieffo che canta nella sua Ballata del Potere: “C’è bisogno di Qualcuno che ci liberi dal male perché il mondo tutto intero è rimasto tale e quale”. Fine della predica.

Noi però siamo curiosi di sapere cosa ha imparato lei.

Io sono diventato allergico a tutte le narrazioni tranne che a quelle bibliche. Posso offrirvi solo altri siparietti. In Friuli quattro uomini, l’onorevole Moro, il prefetto Spaziante, il presidente Comelli e l’onorevole Zamberletti hanno sbaragliato la burocrazia e hanno guidato i cittadini fino alla ricostruzione. Oggi la situazione nella pandemia viene affrontata con un susseguirsi di decreti emanati con tale presunzione di efficacia da generare brutti sospetti. Finora infatti il loro prodotto è l’obbligo di autocertificazione concernente le limitazioni alla possibilità di spostamenti, un vero e proprio strumento di controllo con minaccia di conseguenze penali. Devo stare attento a non lasciarmi prendere da inutili lamenti: dirò semplicemente che stiamo tutti ubbidendo ciecamente come ciecamente ci comandano. In fondo, sto rivivendo la situazione del ’76: devo imparare a vivere in un contesto sconosciuto.

Sì, perché nel maggio del ’76 lei risponde all’appello di don Luigi Giussani che reclama volontari per l’emergenza terremoto in Friuli. Dopo anni trascorsi da sacerdote diocesano in San Babila, centralissima chiesa nel cuore benestante di Milano, accetta di partire. Ma per fare cosa?

Siamo in viaggio, accompagnati a Tarcento da don Giussani che accorgendosi dell’apprensione dipinta sui nostri volti, avvia una conversazione sulla Bassa. In realtà ci offre un ripasso sintetico, veloce ma preciso sul tema della “condivisione”: il metodo del vivere cristiano. Dice: “Vi porto a Tarcento per stare con dei cristiani che soffrono… per “stare”, capite? Il come lo inventerete di volta in volta, se è quello giusto darà gusto al vostro stare”. Il parroco che ci accoglie spiega che il terremoto umilia la persona perché la sbatte violentemente nella spogliazione: un minuto, due minuti di scosse e non hai più nulla! Se sei vivo, devi imparare a vivere. Don Giussani risponde, “glieli lascio qui”. Siamo rimasti lì e non hanno più voluto lasciarci andare.

Ma perché aggrapparsi a voi? Non avevate alcun “potere”.

Mi piacerebbe essere sicuro che sia accaduto perché abbiamo trovato il modo giusto di “stare”. Sicuramente abbiamo desiderato di scoprirlo restando fedeli alla catechesi che ci ha ricompensato con una certezza teorica: in ogni situazione, soprattutto in quelle difficili o tragiche il fattore umano utile e magari risolutore è il “soggetto comunionale”, cioè l’insieme di persone riunite nel nome del Signore (Mt. 18,20). L’opposto della burocrazia che è un termine astratto per indicare un insieme di persone fisiche che occupando posti di potere… lasciamo perdere.

Lei si pagò di tasca sua viaggio e “soggiorno” tra i terremotati, e non li abbandonò. Anzi, in seguito all’emergenza terremoto rispose all’emergenza educativa, tirò su una paritaria secondaria di primo grado, iniziativa sua e di un gruppo di genitori, che da decenni fa il tutto esaurito. Lo sa che molti dicono che il coronavirus sarà un terremoto per le paritarie?

Tanti amici abituati alla concretezza pongono la domanda con brutalità: “Qual è il destino della scuola paritaria?”. Qualcuno addirittura teme che alla “riapertura” scompaiano almeno la metà delle paritarie. Potrebbero, dico io, come potrebbe accadere che non cambi nulla. Tento un piccolo ragionamento: il futuro è il domani di oggi (salvo imprevisti!) e l’oggi è il domani di ieri. Ieri è il terreno del ricordo e quindi abbiamo a che fare con il delicatissimo problema della memoria. Come è nata la scuola in Italia? Leggere attentamente i verbali della sottocommissione preparatoria della Costituente fa risultare che è proprio nata come monopolio di Stato, diabolicamente blindato dal famoso inciso. Da allora, e a causa di quei due articoli (33 e 34), chi vuole aprire una scuola deve domandare permesso, deve pagarsela e lasciarsi ispezionare. Nell’anno 2000 è stata salutata come l’avvicinarsi di una liberazione la legge sulla parità. Era il cappio al collo: chi vuol fare una scuola deve domandare il permesso, deve pagarsela e deve farla come vuole lo Stato pena l’eliminazione.

E voi come fate, o meglio, come avete fatto?

Abbiamo comperato il Manuale del Preside e letto attentamente il D.M. del 24 aprile 1963 che illustra ampollosamente i programmi della rivoluzionaria scuola media istituita l’anno prima; verso la fine appare come fulmine a ciel sereno (proprio non te l’aspetti): “… lo Stato non ha una propria metodologia educativa”. Noi pensiamo di averla! Ed un fattore dirimente, giustifica l’alternativa. Non è una bravura, è l’Altro che si unisce ai due o tre di cui sopra! Capite perché mi vien da ridere quando fischiano le orecchie per il puerile slogan applicato alla situazione: “Andrà tutto bene” può significare soltanto un vivo desiderio di esserci ancora a comandare. Nel caso il “vaccino è già pronto, ve lo potete inoculare da soli leggendo ai domiciliari il commovente racconto quasi autobiografico della prigionia del cardinale Van Thuan intitolato Libero tra le sbarre, edito da Città Nuova.

Ma come fa una scuola anarco-resurrezionalista come la sua, dove “ a tutto ci ha pensato un Altro” a vivere ora il “contrappasso” della chiusura forzata, della didattica a distanza e della virtualità? Cosa le manca di questa creatura “ardita”, diventata una scuola di vita per migliaia di ragazzi cresciuti a didattica, pizzini, panini, canti, preghiere, chitarre, baretto autogestito, radio autogestita, e di cosa fa memoria don Villa in questi giorni?

Adesso la scuola è chiusa e l’anno scolastico pregiudicato. Sono in sofferenza perché da due mesi non posso accogliere al mattino gli alunni. Mi fa tristezza vederli in videoconferenza, mi mancano i loro schiamazzi; non devo fare panini per la merenda, non posso esercitarmi nella pazienza a causa della loro immaturità. Mi manca perfino l’illusione di avere una saggezza da trasmettere, quell’illusione che tante mattine mi spinge a scendere in campo per una sfida, ma soprattutto mi mancano i brevi momenti di silenzio di cui i ragazzi sono diventati capaci. Mi manca la scuola. Come mi piace la frase di un nostro cartellone: “Educare non è riempire un secchio ma accendere un fuoco”. E come mi piace il “Rischio Educativo”. Mi manca la scuola Camillo di Gaspero. E pensare che è nata da quattro mesi di Bassa, di caritativa, di condivisione; è nata da ciellini entusiasti della vita perché affascinati da un padre-maestro che li ha fatti innamorare di Gesù. Sprovveduti, senza i mezzi, senza esperienza. Portata di peso da Qualcuno che si diverte a guidare le circostanze spericolatamente.

Spericolatamente?

Io a Tarcento arrivo a maggio. A settembre c’è lo sconquasso del secondo terremoto che obbliga all’esodo tante famiglie. Quelle rimaste, piagnucolando ci inteneriscono e ci fanno promettere di restare a “fare una scuola”. Troviamo la persona che ci presta il nome per fare il preside raccomandandoci di fare immediatamente la domanda per il riconoscimento legale. Fatto. Gli extraparlamentari, che fin dal nostro arrivo davano segni di grande fastidio per la nostra sola presenza, ignorati, si offendono. A novembre esce l’Unità con un titolo a quattro colonne per invocare l’intervento di Zamberletti per far scomparire la scuola di Cl.

Diceva: «Cl impianta a Tarcento una scuola privata a danno della media statale». Sembra di leggere certi titoli di oggi e invece è quello di un’edizione dell’epoca terremoto.

Senta poi che succede: a marzo il nostro preside ci chiede di sollecitare in provveditorato il rilascio del riconoscimento legale. In provveditorato sono a disagio perché non capiscono di cosa stia parlando. Nei due o tre attimi di smarrimento – giusto il tempo di un Gloria e di una Avemaria – l’angioletto di turno mi accende un lampo nella memoria sussurrandomi un nome: “Zamberletti, Zamberletti, novembre, Zamberletti”. Mi alzo per uscire con aria smarrita mormorando: “Oh mio Dio, e ora cosa dico a Zamberletti?”. Anche il provveditore si agita sulla poltrona e dice: “Cosa c’entra Zamberletti? Mi scusi, cosa c’entra Zamberletti?”. Io ero già uscito. A metà aprile arriva un gentilissimo ispettore ministeriale da Roma per salutare i genitori che abitano in una frazione di Tarcento e con bonaria malizia mi domanda se siamo noi ad aver fatto domanda di riconoscimento legale. Il 20 maggio arriva il riconoscimento legale con valore retroattivo.

Qui si capisce benissimo il suo Te Deum di cinque anni fa: ringraziava di essere libero dalla paura di vivere e di morire perché “Io sono Tu che mi fai. Cioè sono un Suo problema, curioso di vedere come faccia a cavare qualcosa di buono da uno come me”. Ci sta dicendo che anche in questo “contesto sconosciuto” il destino della scuola, sua, della scuola paritaria, non dipenderà da mezzi, potenti e procedure?

Siparietto. Qualche anno dopo avere ottenuto il riconoscimento, l’Arcivescovo di Udine mi prega di partecipare ad un importante incontro perché vuol condividere la sua preoccupazione per la sorte delle scuole diocesane in grave crisi finanziaria. Nella sala affollata alcuni esperti snocciolano suggerimenti di varia natura. Due ore noiosissime per me. Prima di chiudere a monsignore viene in mente di sentire don Villa. Mi schermisco inutilmente e chiedendo scusa inizio: “Posso avanzare un’impressione?”. Monsignore avvisa bonariamente che don Villa è un po’ provocatore. “Lei è pastore di più di centomila anime. Tra queste non ce ne sono venti che vengano a mettersi a sua disposizione anima e corpo per le sue scuole. È vero? È così?”. Conclude monsignore: “Ve l’avevo detto che don Villa è un provocatore”. Due anni dopo vengono chiuse due prestigiose scuole diocesane.

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