Don Villa non ha fatto un “modello” di scuola cattolica

Di Matteo Foppapedretti
17 Settembre 2022
Non esiste il modello della scuola cattolica, o almeno è illusorio pensare che se c'è, serva a qualcosa. Come dici giustamente tu, è una "grazia ricevuta", cioè una avventura

Matteo Foppapedretti, insegnante, amico di don Antonio Villa, scomparso il 14 settembre, aveva visto in anteprima il docufilm “Accendere fuochi” e aveva scritto quanto segue al sacerdote di Tarcento.

Caro don Villa, ti ringrazio di nuovo (come sempre mi capita quando leggo ciò che mi scrivi) per alcuni passaggi illuminanti (oltre che per la tua stima, che spero e prego sia meritata…).

L’esperienza della scuola di Tarcento non è un modello: sono d’accordo. Viviamo di modelli, illudendoci che nel modello rimanga intrappolato automaticamente qualcosa di vivo. Ma non è così. Non esiste il modello della scuola cattolica, o almeno è illusorio pensare che se c’è, serva a qualcosa. Come dici giustamente tu, è una “grazia ricevuta”, cioè una avventura (che se non sbaglio ha la stessa radice etimologica di Avvento, qualcuno che ti viene incontro… E come fai a modellizzare una roba così?).

Ma ha un valore universale, altrimenti sarebbe l’ennesima storia singola e irripetibile che può al massimo emozionarmi, farmi pensare con ammirazione ai protagonisti, o con invidia al fatto di non essere stato lì, tra i “felici pochi” (come dice Shakespeare…). Cioè l’ennesima fregatura relativistica (“A te è andata così, ma a me….”).

È universale perché evidenzia quali sono le dimensioni necessarie per fare una scuola.

Io la capisco così:

1) Fare una scuola è semplice (che non vuol dire facile: la parete nord dell’Eiger è semplice, ma tutt’altro che facile…). Nel film tu racconti che i tuoi, al momento di decidere di restare, ti dissero che la mancanza di tutto era la condizione ideale. Non è scontato da pensare (infatti io non ci riesco quasi mai) ma è vero. Senza niente si tratta di costruirsi quello che serve. Strumenti tuoi, non marchingegni che qualcun altro ha pensato in generale, con la fatica maledetta di doverli adattare. Strumenti tuoi, secondo quello che ti serve e secondo quello che ti succede (ho ancora in mente quando mi hai raccontato del prefabbricato svedese che ci stava per un pelo in cortile).

2) Fare una scuola ha bisogno di una comunione. Senza, la scuola non è un soggetto, ma un ufficio decentrato del ministero e della sua amministrazione (che serve, ma non determina).

3) Una scuola è quindi la casa degli insegnanti. Questo è il punto: senza Tempio, ci può essere dimora?, si chiederebbe Eliot. E qui sta la difficoltà vera (di un mondo cristiano che non sa più se e come costruire il tempio, di un mondo non cristiano che rischia di pensare al tempio come a una gabbia di regole pesanti e antitetiche a quelle oggi sono sentite come necessarie…).

4) Se questa casa c’è, la scuola è semplicemente una “antropologia”, cioè una visione dell’uomo che si dispiega nei tempi e nei modi dell’insegnare.

Poi che questa cosa abbia dimensioni minime o enormi, dipende dalle circostanze.

Quest’estate mi hai detto di tirare la rete più larga che posso e di vedere chi ci sta. È dura, e ogni tanto vado a fondo. Ma mi rendo conto che è perché sono un uomo di poca fede, come il povero san Pietro.

Ecco, la questione è questa: come fa la fede a essere una questione non intimistica (cioè che riguarda solo me), o morale, ma criterio universale di costruzione (valido per me, per il collega cristiano, quello non cristiano. etc)? Criterio universale, e quindi culturale di costruzione? Il punto che il film fa emergere è questo ai miei occhi. Da lì una scuola parla a chi ha dentro, a chi ha in giro, a chi decide le leggi, etc.

Un abbraccio a tutti

Matteo Foppapedretti

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