Vi sono parole il cui valore culturale lo si apprezza solo nel tempo, osservando come esse riaffiorano nel lessico e riprendono vivacità in stagioni diverse della storia che abbiamo vissuto e stiamo attraversando, ma accumunate tutte da mutamenti profondi e tradizioni vive, fughe in avanti e memoria del passato, questioni nuove e domande antiche. Una di queste parole che non conoscono tramonto e sono capaci di riaccendere in ogni momento la verve intellettuale e la vis polemica di ogni uomo vivace è “dialogo”. Una parola mitica e storica al medesimo tempo, che suona come apprezzabile e irrinunciabile agli orecchi di molti e appare ambigua e pericolosa agli occhi di tanti, ognuno dei quali attribuisce all’altro un significato e uno scopo del dialogo senza dichiarare apertamente quali siano i propri. È, questo, il destino di non poche parole che ci sono state consegnate dalla lingua e dal pensiero, ma di cui abbiamo smarrito il senso guadagnato da esse attraverso la ragione e l’esperienza di chi ci ha preceduto.
Per restare inter nos catholicos (i “laici” potrebbero sviluppare analoghe considerazioni partendo dai loro probati auctores), il beato Paolo VI, poco dopo essere salito al soglio pontificio, si accorse che per comprendere il clima culturale degli anni sessanta non si poteva eludere la grande rilevanza che aveva assunto il termine “dialogo” e – come ricorda il Cardinale Biffi – «generosamente e intelligentemente» cercò «di darle legittima cittadinanza entro l’insegnamento della Chiesa, adoperandosi al tempo stesso a orientare e a regolare la riflessione in proposito». Tra i frutti più maturi della sua riflessione che si sono riversati nel Magistero è da annoverare la prima enciclica di papa Montini, l’Ecclesiam suam, oltre un terzo della quale è dedicato proprio al dialogo (la parola ricorre nel testo 60 volte).
Nel presentare il dialogo come metodo e compito ecclesiale ineludibile («La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere», n. 67), Paolo VI non intendeva affatto – come invece alcuni lettori distratti dell’enciclica, quando venne pubblicata e fino ai giorni nostri – opporlo al termine “verità” o considerarlo un’alternativa alla “evangelizzazione” della cultura e della società. In forma originale e feconda, egli intravvede invece che attraverso il dialogo «si realizza l’unione della verità con la carità, dell’intelligenza con l’amore». (n. 85) Il beato Montini era certo che «il nostro dialogo non può essere una debolezza rispetto all’impegno verso la nostra fede» e aveva ben presente il rischio che si nasconde dietro ad un malinteso senso del dialogo: «La sollecitudine di accostare i fratelli non deve tradursi in una attenuazione, in una diminuzione della verità» (n. 91) che la Chiesa è chiamata a vivere, annunciare e testimoniare.
La testimonianza – così come l’educazione – è un rischio, perché deve fare i conti con la libertà di chi testimonia (o non testimonia) e di chi vede e ascolta (o rifiuta di vedere e ascoltare) la sua testimonianza. E la libertà, insieme all’amore, è il caso serio della vita. Papa Montini lo intuì da subito e le turbolente vicende postconciliari, per non giungere subito a quelle più recenti, gli danno ragione. «Il pericolo rimane», scrive nel 1964. «L’arte dell’apostolato è rischiosa. […] Il nostro dialogo non può essere una debolezza rispetto all’impegno verso la nostra fede. L’apostolato non può transigere con un compromesso ambiguo rispetto ai principi di pensiero e di azione che devono qualificare la nostra professione cristiana. L’irenismo e il sincretismo sono in fondo forme di scetticismo rispetto alla forza e al contenuto della Parola di Dio, che vogliamo predicare. Solo chi è pienamente fedele alla dottrina di Cristo può essere efficacemente apostolo». (Ecclesiam suam, n. 91) Una sottile lama separa il dialogo dalla conciliazione ad ogni prezzo delle idee e delle azioni opposte (irenismo) e dalla “con-fusione” del cristianesimo con dottrine o ideologie mondane (sincretismo). E per camminare sul filo di questa lama serve un profondo equilibrio, di cui – ma potrei sbagliarmi – oggi pochi dei predicatori del dialogo (ecclesiastici e laici) sono dotati.
Se il dialogo con tutti è uno strumento necessario, indispensabile per la buona testimonianza del cristiano, esso non è il fine in sé stesso del cristianesimo (né di quella ricerca appassionata e inconclusa del vero e del bene che caratterizza ogni autentico umanesimo). Il dialogo non è un assoluto, non è indipendente dai suoi contenuti, dal suo scopo e dai suoi risultati. A sentire certe affermazioni sembra di cogliere che qualcuno si identifichi, faccia coincidere con il “dialogo” l’intero contenuto della fede e della testimonianza cristiana, così che il “dialogare” comunque sarebbe già per se stesso obbedire alla missione fondamentale della Chiesa e del singolo credente di far incontrare a tutti Cristo, «Via, Verità e Vita» dell’uomo (Gv 14, 6). Scambiare il metodo, il percorso della presenza dei cristiani nel mondo con la “pretesa” veritativa del cristianesimo e il “perché” della vita della Chiesa, porta alle soglie del tradimento di quella originale triade di via, verità e vita che non dissolve i tre connotati cristologici l’uno nell’altro, ma li tiene uniti senza sopprimerne la distinzione.
La via dell’amore è la più persuasiva testimonianza della verità. Accostare gli uomini, la società e i popoli senza amore, in nome di un’improvvida durezza o intransigenza, ci fa dimenticare che tutti, senza eccezioni, sono immagini sempre vive di Cristo, unico Signore dell’universo, della storia e dei cuori. Ma un’incauta accoglienza e simpatia per la cultura dominante sulla vita individuale e sociale, scambiata per magnanimità, mitezza, larghezza di vedute o strategia ecclesiale e “politica”, porta a non riconoscere più in pratica Gesù come l’unico maestro di vita, l’unico Salvatore dell’uomo, l’unico vero senso dell’esistenza. Se così fosse, non saremmo più in grado di presentarci chiaramente ed efficacemente come suoi testimoni «fino agli estremi confini della terra». (At 1, 8) Al meglio, potremo essere testimoni di noi stessi, non di Quello che abbiamo incontrato.
Nel dialogo, verità e carità non si escludono a vicenda, ma l’una ha bisogno dell’altra. L’espressione icastica “carità della verità” – attribuita al beato don Giacomo Alberione, che probabilmente la assume dal Rosmini – è stata sviluppata teologicamente in forma limpida e convincente da Benedetto XVI nella sua enciclica Caritas in veritate. Senza verità la carità è incomprensibile e non genera testimonianza alcuna: solo «perché piena di verità, la carità può essere dall’uomo compresa nella sua ricchezza di valori, condivisa e comunicata». (n. 4) Nel proseguo dello stesso paragrafo troviamo anche la radice più profonda del dialogo: «La verità, infatti – prosegue il papa – è “lógos” che crea “diá-logos” e quindi comunicazione e comunione. La verità, facendo uscire gli uomini dalle opinioni e dalle sensazioni soggettive, consente loro di portarsi al di là delle determinazioni culturali e storiche e di incontrarsi nella valutazione del valore e della sostanza delle cose. La verità apre e unisce le intelligenze nel lógos dell’amore: è, questo, l’annuncio e la testimonianza cristiana della carità». E conclude: «Un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali. In questo modo non ci sarebbe più un vero e proprio posto per Dio nel mondo. Senza la verità, la carità viene relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni. È esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata universale, nel dialogo tra i saperi e le operatività». (n. 4)
Il Cristianesimo non è “una riserva di buoni sentimenti” di marginale utilità sociale. Di fronte ai due tentativi di “nuova colonizzazione” della nostra civiltà, quella dell’apparentemente pacifica teoria del gender e quella della palese violenza del sedicente califfato islamico contro i cristiani e le altre minoranze religiose, le inconcludenti diatribe astratte tra i fautori del “dialogo” e quelli della “(op)posizione” sono già state travolte dal corso delle vicende. Come ci insegna la storia, l’ideologia e la guerra non si fermano ad aspettare gli esiti delle discussioni politiche o ecclesiastiche. Nessun coffee break è previsto dal loro programma. «Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur»: è l’amaro commento di Tito Livio (cfr. Storie, XXI, 7, 1) alle conseguenze delle tergiversazioni nel Senato romano di fronte alla richiesta degli ambasciatori di Sagunto venuti a sollecitare aiuto per respingere l’assedio che nel 219 a.C. il generale Cartaginese Annibale Barca aveva posto alla città, che dopo otto mesi si arrese e fu rasa al suolo.
“Dialogo” e “(op)posizione” non sono alternativi né si elidono a vicenda se hanno tutte e due come centro di gravità la verità. Non quella “a-stratta” (strappata dalla storia), ma quella della storia, della nostra carne e del nostro sangue, di quelli dei nostri padri e dei nostri figli, quella dell’amore. «Pour se poser, il s’oppose», diceva Maritain a proposito della missione di Gesù e ripeteva il rettore Giuseppe Lazzati ai docenti e agli studenti dell’Università Cattolica negli anni Settanta. Ora come allora quelle parole ci riportano al realismo della storia, che non fa mai sconti alla verità.
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