Il nervo scoperto
La grande logomachia sul “green pass” è ormai finita, con la vittoria totale del fronte favorevole alla sua estensione universale, e con la ritirata (o piuttosto la rotta?) dei contrari verso linee più facilmente difendibili. La prossima battaglia sarà la grande offensiva sul clima, sospesa per cause di forza maggiore negli ultimi due anni. Ma i “Fridays for future” sono già ripartiti e, almeno stando ai grandi cartelloni pubblicitari in giro per Milano la settimana scorsa, i “cari leaders” del mondo (l’espressione è proprio quella, dal sapore vagamente nord coreano…) sono avvisati che esso, il mondo per l’appunto, li sta guardando.
Se si va oltre la schiuma della battaglia di parole, oltre le spiegazioni che spiegano troppo (complottismi) e le etichettature che impediscono di spiegare alcunché (no vax, no pass, etc), oltre le incongruenze delle posizioni tattiche assunte da quella o quell’altra forza politica, da quello o quell’altro gruppo di pressione, la cosa interessante che emerge è che il punto centrale e decisivo dello scontro sul “green pass” (e con tutta probabilità di quello prossimo venturo sul “green deal”) è quello della struttura, dei limiti, della funzione e del valore della libertà del singolo di fronte al potere.
Se alle preoccupazioni di Massimo Cacciari e di Giorgio Agamben relative a che ne è della nostra libertà e della nostra democrazia si risponde che prima di preoccuparsi della vita democratica occorre preoccuparsi della vita in generale (Davide D’Alessandro su Huffington Post, 27 luglio scorso); se, come ha recentemente detto il nostro presidente della Repubblica, non bisogna invocare «la libertà per sottrarsi alla vaccinazione, perché quell’invocazione equivale alla richiesta di licenza di mettere a rischio la salute altrui, e in qualche caso di mettere in pericolo la vita altrui» (Inaugurazione dell’Anno Accademico all’Università di Pavia, 5 settembre 2021), allora il punto sensibile, il nervo scoperto, il termine di cui si fa fatica a mettere a fuoco il contenuto e il significato, è proprio la libertà personale, nei confronti e nel contesto della vita e della libertà altrui. Quindi, più precisamente, la libertà personale nel contesto della “democrazia”. O se si preferisce, la libertà personale nel suo significato di “cittadinanza”.
Maurizio Crippa sul Foglio ha parlato recentemente di «democrazia blandamente illiberale» e, citando il Fondatore, di “leggi dragoniane”: c’è senz’altro dell’ironia, ma non solo quella.
Nicholas Farrel, sullo Spectator (“Italy’s draconian vaccine laws are terrifyingly popular”) recupera un mostro sacro dell’antropologia per teorizzare che «tra le razze latine, la parola democrazia significa soprattutto l’obliterazione della volontà e della iniziativa individuale a favore dello Stato. A quest’ultimo viene concesso il potere di gestire, centralizzare, monopolizzare e produrre (…) Tra le razze anglosassoni, soprattutto in America, la stessa parola democrazia significa al contrario, lo sviluppo intenso della volontà individuale e la limitazione dei poteri dello Stato» (Gustave Le Bon, La Psychologie des Foules, 1895).
Comunque la si giri, e qualsiasi posizione si intenda sostenere, il punto che si ha bisogno di definire o ridefinire, che non ci torna, che sentiamo messo in crisi o quanto meno in discussione in questo tornante della storia è il rapporto tra l’uomo e il potere. Il rapporto tra scelte personali e decisioni comuni. Il riverbero di questo rapporto sulla definizione di chi sia l’uomo. La figura dell’uomo in quanto libero in una società governata. In una parola chi è il “cives”.
Riprendo la dicotomia che Gustave Le Bon faceva più di un secolo fa tra i due significati di “democrazia” (intendendo questa parola come relazione tra libertà e potere), togliendone gli intenti polemici che le attribuisce il giornalista inglese, e anche il riferimento “razziale”, datato e positivista, di un certo tipo di “democrazia” a certi gruppi umani definiti. La riprendo perché mi sembra che mostri, in modo icastico, le due possibili opzioni fondamentali di fronte a quella dimensione umana che noi ora chiamiamo “cittadinanza”.
Da un lato la cittadinanza come libertà del cittadino di contribuire a formare, pro quota, le scelte e gli indirizzi di quanto il potere pubblico farà in una gamma sempre crescente di ambiti di intervento (“gestire, centralizzare, monopolizzare e produrre”); dall’altro la cittadinanza come potere del cittadino di costruire, direttamente con le proprie libere scelte personali, il “bene comune”, in spazi ampi e ben difesi – e, si badi bene, non solo di mercato, ma anche sociali – in cui il potere pubblico non si avventura (“sviluppo intenso della libertà individuale e limitazione dei poteri dello Stato”).
Entrambe le opzioni sono in relazione, prima ancora che con strutture istituzionali e politiche, con una immagine di uomo, con una figura antropologica originaria, della quale esaltano o tradiscono aspetti fondamentali.
Dobbiamo provare, in termini quasi brutali nella loro semplicità, a scontornare questa immagine, per come emerge dal tempo lungo in cui si è formata e in cui ha contribuito a sua volta a approfondire, dare spessore e a complicare la risposta alla domanda “Cos’è l’uomo?”.
E a vedere se per caso questo “cambiamento di epoca”, per citare papa Francesco, di cui gli scontri che viviamo non sono che effetti, non porta con sé anche una mutazione profonda di questa figura.
Il cives in sintesi
Mi sembra che la “forma” gestalt, del “cives” sia in grado di descrivere il tipo umano base su cui si è costruita la civiltà “occidentale”, grosso modo a partire da Roma (probabilmente per quanto riguarda l’antica Grecia, compresa la “democrazia ateniese” dei tempi di Pericle, il discorso è un po’ diverso) fino al sorgere, prepotente e a noi contemporaneo, di un altro riferimento antropologico.
Dal punto di vista “orizzontale”, il “cives” esiste in quanto sta in equilibrio tra la sua capacità di autodeterminarsi e il suo riferimento di appartenenza alla società (la civitas, per l’appunto) in cui vive. Il punto di equilibrio è variabile nel corso del lungo arco temporale in cui il cives è stato “l’uomo base” della nostra civiltà, ma non oltrepassa mai i due estremi costituiti dalla totale volontà/potenza di autodeterminarsi (non è mai “sovrano” nel senso di “superiorem non recognoscet”, per capirsi) e dal totale perdersi nella collettività etnico tribale o nella schiera anonima dei sudditi di qualche teo – monarchia.
Se consideriamo la dimensione religiosa, il cives è probabilmente il tipo d’uomo che con maggiore facilità ha avvertito il contraccolpo di novità portato da Cristo nella storia. I grandi sapienti d’Oriente rimangono travolti dalla presenza del Dio Persona: per loro quella «nascita è stata come una morte», come dice T.S. Eliot ne Il viaggio dei Magi. Per il retore Vittorino il passaggio sembra più quello dell’inizio di un compimento («quando ho incontrato Cristo, mi sono scoperto uomo»). Solo l’uomo biblico aveva un pari livello di apertura a questa novità, per altri motivi e per una storia tutta diversa. In Paolo si trovano entrambe queste esperienze. Ebreo da ebrei, della tribù di Beniamino…, ma orgogliosamente “cittadino romano” davanti al potere.
Ma dove riusciamo a cogliere le caratteristiche proprie di questa particolare figura umana?
Identikit di un “tipo umano”
Il cives è costituito dal convergere di dimensioni di libertà/potere relative ad alcuni ambiti esistenziali ben precisi. Ho cominciato a individuarne il profilo vedendo come, nell’attuale momento della condizione umana, questi ambiti esistenziali – e non altri – fossero costantemente messi in discussione, contestati, ridefiniti, annacquati, limitati, quando non apertamente attaccati.
La prima cosa che mi sembra utile sottolineare è che nel suo rapporto con la “civitas”, il cives non è solo soggetto di decisioni o oggetto di regole o privilegi. È, innanzitutto, “fornitore” di pezzi significativi della “civitas”. Il suo ruolo non è mai solo quello di usufruire di spazi più o meno ampi di libertà privata, controbilanciati da doveri pubblici, ma sempre, per quanto in misura variabile, quello di costruttore di “istituzioni sociali”, come la famiglia, che pur coincidendo con un ambito intimo di affetti “privati”, hanno coessenzialmente un peso e una dimensione civile (uso il termine derivante da “civitas” come calco latino dell’aggettivo “politico”, cioè derivante da polis). Fornisce hardware al sistema, non solo software….
Il primo ambito in cui la forma del cives si riconosce è quello familiare. Da un punto di vista giuridico, la famiglia è essenzialmente l’incrocio di due vincoli giuridici, diversi ma connessi. Il primo, il matrimonio, è un vincolo “orizzontale” (non sempre è stato tra pari…). Ha la stoffa giuridica profonda di un giuramento che stabilisce una alleanza. È un atto con cui un soggetto è talmente libero da poter vincolare la propria libertà al di là di qualsiasi cambiamento di volontà. Al di là di ogni legge. È però un atto bilaterale, e trova in questo il suo limite: non è l’atto unilaterale di un sovrano assoluto, ma appunto il vincolo libero e personale di un alleato con un alleato. Se ci si pensa, tutto è tranne che un atto “privato” (quello lo è il contratto, che dura finché durano le volontà concordi dei contraenti, o ancor di più quelle situazioni di fatto che vengono meno al cambiare non di due, ma di una volontà sola). Per effetto di questo giuramento la “civitas” trova al suo interno un vincolo più profondo delle sue leggi, ma lo riconosce, e ne fa un pezzo essenziale di sé. Anche perché questo vincolo, per natura è “fruttifero”. E qui si innesta il secondo legame che costituisce la famiglia, la filiazione. Che dal punto di vista giuridico è sempre stato (o almeno fino a pochissimi anni fa era così anche per il nostro Codice Civile) una “potestas”, cioè un potere che deve essere utilizzato nell’interesse di un altro. Il potere del padre (e della madre) esiste da sempre (lo Ius vitae ac necis del “pater familias” romano nei confronti dei figli), ma diventa sempre di più una potestà, inverandosi in un servizio.
Ma il “munus matris” ha bisogno del “munus patris” per poter esistere. Il patrimonio (la proprietà di cose che durano nel tempo, in qualche modo “istituzioni” economiche al servizio dell’istituzione comunitaria) è garanzia e reddito per la famiglia. Per sua natura quindi si trasmette ai discendenti. Non è ricchezza “privata”: è il fondo di dotazione di una “impresa civile”, che è in grado di fornire servizi essenziali dal punto di vista personale, culturale (“istruire e mantenere i figli”, come recita ancora la nostra Costituzione del 1948), professionale, di assistenza, etc.
Sarebbe però sbagliato limitare l’ambito del patrimonio alla sola dimensione fondiaria o immobiliare: c’è il tema del lavoro (una dimensione il cui valore positivo data dal medioevo). Il lavoro inteso non più come schiavitù è creatore di nuova ricchezza (reddito contro rendita), spessissimo ha una dimensione legata all’istituzione familiare non solo per vincoli funzionali (ricchezza per la famiglia) ma anche produttivi (si lavora in famiglia e con la famiglia, nucleo iniziale e fondante della società commerciale) ed è non di rado legato al governo dello spazio cittadino (e di reti di fondaci, filiali, sedi commerciali, la cui gestione travalica nel governo di città, coste, contadi).
Anche la dimensione finanziaria della ricchezza, cioè il suo svincolamento dal bene materiale e la sua proiezione nel tempo (la dilazione del pagamento, la scommessa sul valore dei beni nel futuro), se non nasce, sicuramente è potenziata con l’invenzione dei titoli di credito. Cioè documenti garantiti dalla fiducia (si dà credito a ciò di cui ci si può fidare) che il buon nome del “cives” si era guadagnata negli affari, oltre che dalla rete dei colleghi, l’universitas mercatorum (documenti tutt’altro che “privati”, quindi). Che sono, attraverso passaggi non sempre univoci, la matrice del denaro di carta, del mezzo universale di pagamento svincolato dal suo valore intrinseco. La fiducia che la frase “pagabile a vista del portatore” scritta sulle banconote emesse dagli Stati rispondesse al vero ha le sue radici nella fiducia nel nome e nella firma di un cives.
Il patrimonio del cives (e non la nobleza de sangre) è la matrice della sua capacità di occuparsi della cosa pubblica: è quando questa capacità passa dalla costruzione della civitas al rapporto con il potere statale che le cose si fanno più difficili. Il voto per censo (la trasposizione nell’ambito delle forme dello stato nazionale della naturale capacità del “cives” di occuparsi della sua città) è un meccanismo che porta a ingiustizie e a soprusi; la difesa del patrimonio dalla mire fiscali dello stato è un fronte di conflitto sempre aperto: se da un lato si riconosce in essa la radice del riconoscimento di tutte le libertà civili fino all’epoca moderna, dalla “Magna Charta” al “no taxation without representation”, dall’altro viene sempre più erosa da sistemi di controllo preventivo e intermediazione tecnica.
Naturalmente questo non è vero sempre e dappertutto allo stesso modo e nella medesima misura. E nemmeno è garanzia di giustizia sociale o di allocazione ottimale delle risorse. Ma lo spazio necessario, riconosciuto e non contestato della originalità dell’esperienza esistenziale del singolo di fronte al potere è costituito irriducibilmente da queste dimensioni.
Le dimensioni istituzionali familiare e economica possono certamente diventare pesi per l’anima, o addirittura “strutture di peccato”. Il cives può decidere di non sposarsi, può donare tutti i suoi averi ai poveri, può rinunciare all’eredità per lasciare tutto in beneficienza, può abbandonare la sua ricchezza e la sua posizione sociale per andare in cerca di fortuna e autenticità in giro per il mondo: anche la rinuncia a questa dimensione ne costituisce in realtà una forma estrema e libera di esercizio.
Infine c’è la dimensione personale dell’habeas corpus, dell’intangibilità della propria integrità fisica da parte di chiunque. In realtà anche da parte di se stessi (ad esempio le norme ancora valide del nostro Codice Civile in merito agli atti di disposizione del proprio corpo). La nostra esistenza fisica non può essere limitata da alcun potere senza il nostro consenso, ma il consenso non rende possibile ogni e qualsiasi limitazione. Il dato oggettivo dell’esistenza è un dato indisponibile, non immediatamente e prima di tutto per ragioni morali o psicologiche. Per ragioni “civili” (uso ancora qui il termine come calco di quello più ambiguo di “politico”), che non sono estrinseche alla persona, ma ne proteggono in modo estremo gli ambiti in cui questa si configura. D’altra parte, se qualcuno, foss’anche lo stesso soggetto, potesse disporre della vita di un cives, questo diventerebbe immediatamente “oggetto” di un sistema.
Mi rendo conto scrivendo che sto elencando solo profili che in termini giuridici appartengono quasi esclusivamente al diritto “civile” (contemporaneamente mi rendo conto che civile e privato non hanno la stessa estensione semantica…) e praticamente nulla di ciò che classicamente viene inteso come costitutivo delle libertà del cittadino (diritto al voto, libertà di espressione, associazione e manifestazione del pensiero politico, etc). Non che non siano importanti, ma non sono strutturali. Il profilo antropologico originale e sorgivo del cives sta nella sua consistenza umana davanti alla realtà, strutturata e resa efficace dall’esercizio di poteri che sono prima di tutto ed essenzialmente espressioni di libertà che vincola se stessa a una decisione.
Il cambio di paradigma e la demolizione del “cives”
Che il paradigma sia cambiato è cosa evidente.
Nella gestione dell’emergenza sanitaria, la libertà originaria propria del “cives” tutto è stata considerata tranne che un criterio con cui l’emergenza stessa potesse essere non dico progettata, ma nemmeno pensata. La libertà, sembra suggerire il Capo dello Stato, non è responsabilità e autonomia della persona nel cercare una risposta, ma licenza di nuocere al prossimo. E probabilmente in questo sta il carattere “blandamente illiberale” delle regole che oggi determinano così fortemente la nostra vita quotidiana: non nel fatto che lo Stato ponga regole tassative (che ci sta a fare, se no?), ma nel non riconoscimento e nella eradicazione della dimensione della libertà responsabile (cosa a cui per converso, hanno contribuito non di rado anche i paladini dei diritti personali, laddove hanno sottolineato unilateralmente solo l’autodeterminazione calpestata…).
Forse accadrà ancor meno nella definizione delle condizioni di partenza e di sviluppo della “transizione” (tecnologica, ecologica, sociale) post Covid: nessun cambio di paradigma economico (il consumo rimane il carburante dell’economia mondiale…) a fronte di un universale cambio di paradigma industriale (tecno – bio – eco contro chimico/meccanico) finanziato da alcuni grandi “creatori/accumulatori di credito” (non più, o non più principalmente, lo Stato come nelle precedenti rivoluzioni industriali, tutte basate sull’“economia di guerra”, di cui lo Stato stesso è monopolista…).
Il credito (e il corrispondente debito) come fondamentale, se non unico vincolo politico tra Stati (a sovranità piuttosto limitata). E aggiungerei, fondamentale vincolo di coesione sociale: il denaro, guadagnato / risparmiato è disfunzionale, perché non è a debito, ma corrisponde a una ricchezza “autoprodotta”. Meglio un sistema di crediti, di bonus, di sconti, di superpunti Esselunga, magari legati a un “social behaviour” che rispetti certi standard. D’altra parte, produrre autonomamente ricchezza a partire da una “accumulazione di base ” (risparmio, patrimonio, eredità) in una economia turbo green che va a incentivi / crediti è sempre più arduo….
E questo accade mentre l’esperienza sorgiva del giuramento e della conseguente potestas di cui la famiglia è il luogo naturale diventa (ed è fatta diventare) un relitto, e le forme a garanzia della libertà pubblica appaiono essere un freno e un ostacolo al raggiungimento di obiettivi emergenziali (cioè di tutti gli obiettivi politici strategici che contano…).
Quali sono i motivi di questo cambiamento? Posso solo registrare che quando il cives ha cominciato a reclamare l’assolutezza della propria libertà (che per essere assoluta senza creare l’anarchia ha dovuto rifugiarsi nel privato), il potere (statale prima, sovra statale e extra politico poi) ha cominciato a pretendere di essere l’orizzonte totalizzante e totalitario in cui l’uomo vive. Il guscio d’acciaio dentro il quale il singolo può permettersi ogni licenza privata, cioè resa irrilevante ai fini della costruzione della società. Il cives non oscilla più tra i due estremi senza mai oltrepassarli: diventa signore assoluto nella sua sfera intima, e funzione del sistema in quella pubblica.
La gestalt si frantuma.
Questa tendenza diventa invincibile quando il potere (non necessariamente e anzi in futuro non più principalmente statale e politico) è in grado di fornire al singolo individuo, a condizioni economicamente vantaggiose, tutti gli strumenti necessari per la realizzazione dei suoi voleri privati.
Il tipo umano del cives diventa l’elemento disfunzionale del sistema.
Questo spiega perché sorge un profilo alternativo di cittadino, che si misura fondamentalmente sulla partecipazione del singolo ad azioni eticamente motivate e socialmente condivise, ed è caratterizzato fondamentalmente dal fatto di vivere immerso (flusso/ambiente) in un sistema in cui la tecnologia non è uno strumento a disposizione dei singoli soggetti agenti, ma un dato appunto sistemico e ambientale, le cui condizioni di base sono completamente fuori dalla portata e costituiscono al tempo stesso le condizioni di esistenza del singolo individuo.
E mentre questo nuova figura di cittadino sorge, parlamenti, tribunali, tecno – burocrazie, servizi sociali ed educativi, grandi realtà sovranazionali, corporation multinazionali, antiche caste professionali 2.0, opinion leader e industria culturale, centri di ricerca e prestigiose università, ognuno secondo il proprio modus operandi colpiscono ora uno ora l’altro ambito di articolazione della forma del cives.
In questo modo essa non è più un’esperienza umana normalmente praticabile (per quanto possa essere anche spesso una esperienza infelice o conflittuale) ma una opzione “ad alto costo” economico (la libertà si paga cara…), sociale (si costruisce un netto stigma nei confronti dell’“estetica pubblica” di questo tipo umano,) giuridico (Tom Evans, il padre di Alfie, ha rischiato la galera per affermare la sua “patria potestas” contro l’individuazione del best interest di suo figlio da parte di tribunali e da servizi sociali)
Conclusioni
Il nuovo paradigma è fluido. La parola chiave di questi anni di cambiamento è davvero “liquido”. In questo ha ragione Baumann: la nuova forma di “cittadinanza” si scontra con la oggettiva solidità della figura del cives. Il conflitto, prima ancora che sull’etica e sulla politica, è sull’antropologia.
Ma i punti costitutivi del “cives” sono elementi difficilmente eludibili, e probabilmente sono necessari perché l’uomo possa non essere una variabile dipendente (magari felice) di un sistema totalizzante / totalitario.
Vorrei solo evidenziarli e tenerli a mente.
Foto Ansa