Dario Fo, il giullare che disprezza il potere, ma poi è sempre sul palco a prendere l’applauso

Di Laura Borselli
13 Maggio 2013
Come si fa a sposare tutte le cause facili facili col piglio dell'alternativo e sfilarsi un attimo prima che passino di moda? È questa la vera arte da Nobel di un animale di scena

«Il clima è aggrovigliato. Si sta facendo della tattica di transito come prima di una grande battaglia. Non capisco ancora il gioco. Credo che il dialogo sia ancora possibile, tutto dipende dalle concessioni che si fanno sul piano delle varie strutture e sulle garanzie che si cercano di dare». Nei giorni convulsi delle prove di dialogo tra Pd e M5S, si stava così, appesi a incomprensibili interviste rilasciate da Dario Fo in veste di più autorevole conoscitore del Movimento nato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio.
Inutile dire che il premio Nobel, poveretto, in quel casino ci capiva poco e non era il solo. Quello per il M5S è del resto l’ultimo, istintivo e travolgente amore sbocciato dal sen del nostro giullare più famoso. Definizione, quella di giullare, ch’egli non ritiene offensiva né inadatta a chi vuole guidare una rivoluzione, come il suo collega Beppe Grillo. «Lo stesso san Francesco – ha detto poche settimane fa a Gad Lerner – era un giullare. Il giullare non è mai crudele, rispetta sempre le persone». La frase, finalizzata a dire che «Berlusconi invece calpesta tutti», tornò giusto in mente pochi giorni dopo, quando Fo ironizzava sul cognome di Renato Schifani. «Onomatopeico, dentro il suo nome c’è già tutto, il rifiuto e il senso di angoscia e di repulsione per queste persone» o su Renato Brunetta cui avrebbe volentieri regalato «un seggiolino per poterlo mettere a livello, all’altezza della situazione».

Al paese natio di San Giano, sulle rive del lago di Varese, Dario Fo veniva soprannominato lo smilzo. Dopo l’8 settembre del 1943 si arruola volontario nella Repubblica Sociale di Salò. Il fatto emerge negli anni Settanta, quando Fo è già una figura di spicco nel panorama degli intellettuali comunisti italiani e, dopo i successi del teatro di narrazione di Mistero Buffo, ritorna al teatro politico con Morte accidentale di un anarchico, evidentemente ispirato alla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli e al ruolo del commissario Calabresi (il commisario dell’opera si chiamava Cavalcioni, dall’abitudine di far sedere gli interrogati a cavalcioni sulla finestra). Ma torniamo all’argomento dell’esperienza repubblichina: Fo ha svicolato fin che ha potuto per poi dire (dopo essere stato riconosciuto da diversi testimoni) di essersi arruolato per «salvare la pelle».
Aneddoti che racconta più volentieri sono quelli dell’inizio della carriera, quando partiva dal paese per frequentare l’Accademia di Brera e nel suo vagone di pendolare metteva in scena questo e quello con grande diletto degli altri pendolari. Non c’è da dubitarne. L’uomo è un animale di scena, capace di trasformare ogni situazione in un palcoscenico tutto suo, da invadere con quella presenza sgraziata e magnetica, le mani indaffarate, gli occhi roteanti, tutto magnificamente abbinato all’eloquio per niente limpido ma straordinariamente efficace e coinvolgente. Il problema nasce quando si passa al contenuto.

La motivazione del premio Nobel per la letteratura conferitogli nel 2007 è che «seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi». Missione che il drammaturgo interpreta mettendo al servizio la propria persona. Il suo è un patrocinio ambito che negli anni è andato ai soggetti più vari: i manifestanti del G8 di Genova, i referendari per l’acqua, la guerra in Libia (ma non quella in Iraq, che ha ferocemente avversato). Come politici ha amato, tra gli altri, Antonio Di Pietro («da pm ha fatto cose gloriose»), Luigi De Magistris, Giuliano Pisapia, Fidel Castro («ha commesso molti errori ma è pur sempre una personalità capace di ascoltare chi stima»). Non ha simpatia per la Chiesa, tanto che il Wall Street Journal, in occasione del Nobel, definì la sua opera «un abbaiare e latrare di cani alla Chiesa cattolica». Da ultimo, appunto, l’impegno a cinque stelle. Con Grillo e Casaleggio ha scritto Il grillo canta sempre al tramonto (Chiarelettere) arrivato alla quarta edizione. Alle Quirinarie ha ottenuto solo 941 voti ma è molto popolare nel movimento.

Nella prefazione a un testo che raccoglie il suo teatro politico e pubblicato nel 1973 (Compagni senza censura, Mazzotta editore) Fo si scaglia contro «l’atteggiamento dell’intellettuale verso il potere, il dovere della scelta radicale, e la denuncia del gioco della furbizia dell’intellettuale che sempre si adatta, e cerca di trovare il suo spazio, quando il potere lo chiama: e quando nasce il nuovo potere della borghesia capitalistica, si inserisce subito, fresco, e gran ciambellano, a stangare la classe dalla quale ha avuto origine». Eh sì, brutta bestia l’intellettuale. Vuoi mettere con il giullare?

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