Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Se chiedi a Daria Bignardi, 56 anni appena compiuti e l’ultimo passato a dirigere Rai 3, quanto è femminile la sua rete, vieni travolto da un elenco di volti noti, le conduttrici della terza rete pubblica sono tante, agguerrite, apprezzate, e in sintonia con un condottiero donna che gradisce ma non si accontenta di un ramo di mimosa.
Direttore, che cosa hai fatto l’8 marzo?
Ho partecipato alla cerimonia del Quirinale. Mi invitavano da anni ma da Milano non riuscivo mai ad andare, stavolta ci sono riuscita.
Partecipi allo sciopero internazionale delle donne indetto da “Non una di meno” per combattere la violenza di genere?
Gli scioperi per funzionare devono proseguire a oltranza: stavolta non posso, ma sono favorevole agli scioperi che rompono le scatole.
Secondo i dati dell’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali, la violenza sulle donne è maggiore dove sono più emancipate, in paesi come Danimarca, Finlandia e Svezia, e il numero dei divorzi aumenta dove aumentano le violenze domestiche e sessuali. Che cosa ci raccontano questi numeri?
Che l’uguaglianza tra le persone ancora non esiste, e chissà se esisterà mai.
È paradossale ma vero ipotizzare che le politiche di uguaglianza abbiano aumentato la violenza sulle donne?
Non penso e comunque non ne so abbastanza per dare una risposta sensata.
Tu vieni da una famiglia a maggioranza femminile, è stato un vantaggio?
Non so se sia stato un vantaggio, non credo, anzi avere anche un fratello mi avrebbe fatto piacere, ma mi sono trovata bene.
Ti appassiona la politica?
Mi appassionano le battaglie per i diritti civili.
La sinistra, in Italia ma anche nel resto d’Europa, è paladina delle lotte di genere ma esprime leadership prevalentemente maschili. Le destre, invece, candidano con successo le donne, da Giorgia Meloni a Marine Le Pen, a Frauke Petry, o Theresa May. Perché secondo te?
Mi dispiace deluderti, non ne ho idea.
Se potessi intervistare una di loro, chi chiameresti per prima?
Theresa May. Ho un debole per gli inglesi.
Rai 3 ha raccontato la campagna presidenziale americana con il programma La Casa Bianca, condotto da Iman Sabbah, continuerete raccontando l’America di Trump?
Ci stiamo pensando: Iman ha fatto un bel lavoro e mi piacerebbe lavorare ancora con lei.
Un tuo aggettivo per The Donald.
Incredibile.
Riuscirà a cambiare lo storytelling del mito americano? “Make America great again” funziona?
Temo di non essere in target per questo tipo di slogan.
Secondo te che tipo di sfida conduce Mark Zuckerberg nei confronti del presidente degli Stati Uniti: politica o culturale?
Spesso le due cose coincidono.
Che rapporto hai con i social?
Normale. Più Twitter che Facebook o Instagram, soprattutto per le notizie. Li frequento da un sacco di tempo, ma vado a periodi, in questo non sono molto assidua.
Che cosa hai imparato dopo un anno da direttore?
Ah, un miliardo di cose. Un’esperienza estrema ed estremamente interessante. Dirigere una rete pubblica fa capire un sacco di cose non solo sulla tv e sulla comunicazione ma anche sulla politica, sull’Italia e soprattutto sull’animo umano.
Quante ore lavori al giorno?
Fai prima a chiedermi quanti minuti non lavoro.
Quanti tweet scrivi al minuto?
Nessuno. Più che altro ritwitto.
La prima cosa che fai appena ti svegli (non barare).
Guardo se ci sono nuovi messaggi sul telefono.
Il programma di cui vai più fiera.
Tutti quelli nuovi in quanto neonati, ma Rai 3 per fortuna ha solo programmi di cui andar fieri.
La critica che più ti ha offesa.
“Si è tagliata i capelli per essere più autorevole”. Maddai?
Come superi gli insuccessi?
Non risparmiandomi nulla. L’unico è stato Politics ma comunque dagli insuccessi si impara più che dai successi.
Che cosa manca ancora al tuo palinsesto ideale?
Un bel programma sulla disabilità e uno che parli di immigrazione in modo sorprendente.
Le novità di Rai 3 per la primavera 2017?
Il 18 aprile parte il programma di Pif, una striscia quotidiana di un quarto d’ora, all’ora di cena. Sarà bellissimo, io ne sono entusiasta. Come del programma di Lerner che parte a fine aprile: Operai. Un programma che mancava.
Cosa invidi alle altre reti?
Montalbano a Rai 1 e Schiavone a Rai 2, ma stanno bene dove sono.
Ti secca più perdere le serate di ascolti con La7 o con Mediaset?
Confesso che non ci faccio tanto caso, dovrei? Ma se devo proprio far confronti sicuramente con La7 perché abbiamo un pubblico più simile. Però devo dirti che sono molte più quelle che vinciamo che quelle che perdiamo.
Cosa pensi del tetto dei 240 mila euro annui per il compenso degli artisti?
Capisco che teoricamente sia una regola interessante ma non credo sia praticabile se si vuol fare tv di qualità.
Che cosa significa per te fare servizio pubblico?
Ti rispondo con degli esempi: Sono Innocente, Stato Civile, I ragazzi del Bambino Gesù fanno servizio pubblico, ognuno a suo modo, raccontando realtà per qualcuno anche scomode o che fanno paura, come la malattia o gli errori giudiziari. Ma anche i programmi informativi di Berlinguer, Annunziata e Greco, il racconto della politica di Fuoriroma e di Gazebo Social News ma anche il programma di Angela, o Chi l’ha visto, o le inchieste di Iacona e Report, di Lerner e Iannacone, o Mi Manda Raitre di Sottile e Tuttasalute, i libri di Augias e Murgia, Blob, Fuori Orario, Il Posto Giusto, Radici, La Grande Storia, i programmi di Fazio e Gramellini, Sveva Sagramola e Camila Raznovich: tutta Rai 3 fa servizio pubblico. Fare servizio pubblico non è solo cosa si fa ma anche come si fa quel che si fa, compreso l’intrattenimento. A Rai 3 ce lo si chiede per prima cosa se stiamo facendo servizio pubblico, per tutto quel che facciamo.
Nella stagione dell’emergenza terremoto la tv pubblica ha avuto un ruolo prezioso dando voce e aiuto ai terremotati. La Rai è una macchina snella, quando occorre?
Snella non so ma sicuramente è una macchina molto potente.
Fuocammare non ha vinto l’Oscar, o forse sì e hanno scambiato una busta… Che cosa ti auguri per questo importante documentario, che Rai 3 ha presentato e replicato?
Fuocoammare ha già vinto e avrà una vita lunga: la prima visione in rete è stata un successo incredibile. Pietro Bartolo è un eroe del nostro tempo. Sono contenta di averlo conosciuto. Lui e Lidia Tillotta, la giornalista del Tgr di Palermo che lo ha aiutato a scrivere il libro sul suo lavoro, sono persone straordinarie.
Matteo Renzi ti sembra maturato o invecchiato?
Nessuna delle due cose.
Hai mai incontrato il sindaco di Roma, Virginia Raggi?
No, mai. Non la invidio. Ogni tanto quando penso a tutte le inevitabili grane che sommergono un direttore di rete penso che c’è chi sta peggio di me.
Che idea ti sei fatta della città in cui adesso vivi?
La trovo meravigliosa e mi piacerebbe un giorno viverla davvero. Dopo più di un anno non ho visto quasi niente, tranne lo scorcio di Tevere che attraverso ogni mattina. Mi fermo sempre un paio di minuti sul ponte a godermi la luce, il cielo, il volo dei gabbiani. Per una persona vissuta cinquant’anni in Pianura Padana la luce di Roma è commovente. Della città purtroppo ho visto poco, in compenso ho imparato a non perdermi nei corridoi bui della Rai.
Prendi spesso i mezzi pubblici?
Sì, il tram, ogni mattina. All’ora in cui lo prendo io passa ogni 7 minuti, come a Milano.
Hai portato i figli in visita al Pantheon?
Lo avevo già fatto quando erano piccoli: mio padre era Guardia d’Onore del Pantheon e ce li avevo portati in onore del nonno che non hanno mai conosciuto. È morto molti anni prima che nascessero.
Quando esce il tuo nuovo romanzo Storia della mia ansia e cosa dobbiamo aspettarci?
In teoria in autunno, se non lo rimando ancora. È finito da più di un anno ma temo di non godermelo, se esce quando sono ancora direttore. Magari aspetto la fine dell’incarico.
Quando ti rimetterai uno di quei tuoi vestitini neri?
Ah, chi lo sa! Ma li mettevo solo in televisione, sai? Nella vita mi sono sempre vestita come mi vedi ora, da quando ho diciotto anni. I vestitini neri sono la cosa più simile a una divisa che ero riuscita a trovare.
Sii maestrina come ti disegnano e dacci uno dei tuoi giudizi sinceri sul nuovo Tempi…
Vintage, in senso buono.
Foto Ansa