Giustizialismo planetario impantanato a Giakarta…
Al summit di Davos aveva promesso, fra lo scetticismo generale, di rimuovere l’ex capo di stato maggiore dalle sue funzioni ministeriali. Due settimane dopo ha mantenuto la parola data: il 14 febbraio il presidente indonesiano Wahid ha “sospeso” il generale Wiranto dal governo in cui ricopriva la carica di ministro per il coordinamento delle politiche della sicurezza a motivo delle accuse nei suoi confronti contenute nel rapporto finale della commissione che ha indagato sui massacri di settembre a Timor Est. A Davos Wahid aveva detto, a irritazione degli ascoltatori: “Wiranto dovrà difendersi in tribunale. Subito dopo la condanna, gli concederemo la grazia”. Il presidente indonesiano sta in effetti giocando una partita molto difficile: la comunità internazionale ha minacciato l’istituzione di un tribunale per crimini di guerra e l’isolamento dell’Indonesia se Giakarta non provvederà a fare giustizia dei crimini commessi a Timor; ma punire i responsabili equivale a sollevare l’ira delle forze armate contro il fragile esecutivo che sta reggendo la transizione democratica dell’Indonesia. Per tentare di far quadrare il cerchio Wahid sta allestendo una sceneggiata che solo degli asiatici saprebbero tenere in piedi: il processo ai militari si farà, così come si è fatta la commissione di inchiesta, ma alla fine sarà punito solo qualche capro espiatorio, e Wiranto se la caverà con una tirata di orecchie per semplice “omissione di controllo” sui paramilitari. L’Onu e l’Occidente potranno anche non accettare la farsa, ma allora si accolleranno la responsabilità di una nuova destabilizzazione dell’Indonesia.
… e preso in trappola a Phnom Penh (Cambogia) Problemi simili a quelli di Giakarta si registrano a Phnom Penh, capitale della Cambogia che conobbe l’apocalisse dei khmer rossi. Un quarto di secolo dopo l’Onu si è svegliata e, agitata da sacro fuoco, ha deciso di creare un tribunale internazionale per punire i pochi responsabili sopravvissuti degli orrori di quell’epoca (2 milioni di persone vittime dell’ultimo genocidio comunista della storia). Ma non aveva fatto i conti col governo locale, che prima ha offerto tutta la sua collaborazione, ma poi ha cercato di strumentalizzare l’iniziativa per scopi interni. Scrive il settimanale Asiaweek di Hong Kong: “Hun Sen (il primo ministro filo-vietnamita – ndr) vuole che il controllo decisivo resti alla Cambogia e sostiene che il paese può perfettamente gestire il tribunale senza l’intervento dell’Onu. Dopo quasi un anno di incontri, le due parti sono riuscite a concordare che il processo si svolga a Phnom Penh e che ci sia un coinvolgimento internazionale di qualche tipo. Ma non c’è nessun accordo definitivo. Le Nazioni Unite chiedono di ricoprire un ruolo almeno paritario. In qualunque misura l’Onu voglia essere coinvolta, non può comunque sottoscrivere un’azione legale che corra il minimo rischio di risultare una messinscena. Una preoccupazione in particolare è che i leader dei khmer rossi passati dalla parte del governo, come l’ex ministro degli esteri Ieng Sary,possano sfuggire alle incriminazioni”. Insomma, anche in Cambogia l’ideale della giustizia planetaria si scontra con prosaiche realtà.