Da queste carceri non evade nessuno (ma non per il motivo che pensate voi)

Di Rodolfo Casadei
31 Agosto 2012
Nel Brasile dei penitenziari peggiori del mondo, la storia degli Apac, dove «entra l’uomo. Il reato resta fuori». Costano meno, si pranza con posate di metallo e nessuno tenta di scappare, «perché non si fugge da chi ti vuole bene»

Il cellulare della polizia penitenziaria brasiliana si ferma davanti alla palazzina verniciata di fresco. A fatica per le catene ai piedi e le manette strette ai polsi quattro carcerati avvolti in accecanti uniformi arancioni scendono dal veicolo e si trascinano nella polvere rossa dello sterrato. Lo sguardo verso terra, come stabilisce il regolamento. Si dispongono in fila dietro a una guardia col berretto blu calcato e la visiera che seminasconde il volto, mitra imbracciato. Bussa al portone. Apre un uomo in sandali e maglietta, un filo di pancia e di baffi: un detenuto pure lui (nella foto Avsi qui a sinistra). Per un’inspiegabile telepatia i quattro capiscono e sollevano la testa stupiti. «Buon giorno, chi siete, come vi chiamate?», chiede gentilmente l’uomo. L’agente risponde pronunciando un paio di numeri di articoli del codice penale. Il detenuto coi sandali sorride: «No, volevo sapere i loro nomi. Entrate. Vi aspettavamo. Per favore signora guardia liberi loro le mani e i piedi: c’è una doccia calda pronta per loro e poi devono provare vestiti della loro misura. Le uniformi ve le restituiamo». Poco dopo il gruppetto fa il suo ingresso all’interno della struttura, e sulla parete sopra agli ingressi delle tre sezioni in cui è organizzata (“regime segregato”, “regime semi-aperto”, “regime aperto”) i loro occhi incontrano una grande scritta blu sul muro bianco: «Qui entra l’uomo. Il reato resta fuori».

CARCERE DOLCE. Tutte le settimane una scena come questa si ripete in uno dei 34 “Apac” del Minas Gerais. Gli Apac sono una forma alternativa di detenzione che in Brasile esiste da ben quarant’anni. Quando la sigla è nata, all’interno di un’esperienza di pastorale carceraria, significava “Amando il prossimo amerai Cristo”. Quando poi l’esperienza si è trasformata in un ente no profit del privato sociale, ha cambiato di significato in un più preciso Associazione per la protezione e l’assistenza ai condannati. Infatti a gestire questi centri dove si praticano forme di detenzione ad alto contenuto rieducativo sono esperti e volontari del no profit. Il Minas Gerais, invece, è uno Stato della federazione brasiliana con 20 milioni di abitanti e 50 mila detenuti, 2 mila dei quali sono insediati negli Apac: è anche la regione del Brasile dove il metodo registra oggi i maggiori successi, tanto che altri 20 stati della federazione stanno aumentando il numero degli Apac sul loro territorio e ampliando quelli esistenti. Come nel Minas Gerais è stato già fatto negli ultimi otto anni soprattutto per impulso del Procuratore Generale Tomaz de Aquino Resende. È l’uomo che ha voluto espandere il “carcere dolce” per i condannati con sentenza passata in giudicato nonostante critiche, sospetti e scetticismo. Che giustifica così i suoi orientamenti di politica carceraria: «Il tasso di recidiva fra i detenuti rimessi in libertà dalle prigioni convenzionali è dell’80-90 per cento, e si tratta quasi sempre di reati più gravi di quello commesso la prima volta che sono stati imprigionati; fra i detenuti degli Apac, una volta definitivamente fuori dalla struttura il tasso di recidività è solo del 12 per cento, e il reato compiuto è lo stesso della prima condanna oppure uno meno grave. Dalle loro strutture, dove non esistono agenti di custodia, abbiamo avuto solo 9 evasioni nell’arco di dieci anni, e metà degli evasi poi si è riconsegnato; nelle altre prigioni i tentativi di evasione sono pressoché quotidiani».

MIRACOLO CARIOCA? Tutto ciò accade nel Brasile dei paradossi. Il paese delle peggiori carceri del mondo (il più orrendo del pianeta per comune ammissione si trova nel Rio Grande do Sul) è anche quello dove si incontrano i migliori del mondo, nel Minais Gerais, dove i detenuti in “regime aperto” vanno e vengono per lavorare all’esterno o visitare la famiglia nei week-end, usano il cortile per feste e matrimoni, la libreria per studiare, la cella per suonare la chitarra, autogestiscono l’ordine e la disciplina. Un miracolo carioca? No, solo il frutto della logica, che matura quando si decide di guardare ai delinquenti come persone piuttosto che identificarli col delitto che hanno commesso: se si immerge per anni una persona in un ambiente scomodo, violento e corrotto, se la si umilia quotidianamente e la si espone ad abusi e degradazioni, non ci si potrà meravigliare che al termine della pena esca dal carcere convinto di essere spazzatura sociale, destinato al crimine per il resto della vita. Se, al contrario, una persona è trattata umanamente, se viene stimolata continuamente a prendersi cura di se stessa e dei bisogni di chi convive con lui, e viene premiata nella misura in cui mostra attenzioni per i suoi compagni, se anziché abbandonarla all’ozio che è il padre di tutti i vizi le si dà la possibilità di lavorare, dentro o fuori dalla struttura a seconda della fase del recupero, e di avere rapporti sociali, inclusi quelli con la famiglia di origine. Beh, se si fa così, c’è da meravigliarsi che il delinquente si redima e non torni a commettere delitti? È così semplice da restare imbarazzati per non averlo capito prima…

FUGGIRE L’AMORE. «Entra negli Apac chi ha già trascorso un certo periodo nel carcere convenzionale, su disposizione del giudice di sorveglianza e previo impegno sottoscritto dal detenuto di rispettare le regole della struttura: svolgere turni di lavoro, occuparsi personalmente della manutenzione del carcere, partecipare ai momenti religiosi, rispettare tempi e orari quando avrà la semi-libertà e poi la libertà piena che implica la possibilità di trascorrere il week-end fuori, mantenere un comportamento irreprensibile. Molti detenuti che pure potrebbero entrare nel programma rifiutano, perché sanno che negli Apac non entra la droga, che invece ci si può procurare facilmente nelle altre carceri. Alcuni firmano e vengono progettando di evadere e pensando che da qui sarà più facile: dopo una settimana rinunciano perché scoprono tutti gli aspetti positivi. È passato in una di queste strutture un pluriomicida che aveva 50 anni di pena da scontare. Gli hanno chiesto: “Sei già evaso o hai tentato di farlo 12 volte: perché non ci provi più? Da qui sarebbe più facile”. Risposta: “Perché non si fugge dall’amore”».

SENZA MANETTE. Quando un detenuto deve recarsi dal giudice per un aggiornamento del suo caso, o per decidere sulla richiesta di passaggio da un regime carcerario a un altro (chiuso, semi-libero, libero) ad accompagnarlo non sono le guardie dentro a un cellulare, ma altri due detenuti che vegliano su di lui e che non usano manette. Tornano sempre tutti e tre, perché chi evade, e viene ripreso finisce nel carcere di provenienza, dove «in celle da 10 persone ce ne vivono 80, non c’è spazio e si fanno i turni sia per dormire sia per stare in piedi, chi non ce la fa lega le lenzuola alle sbarre e dorme come in un’amaca. Le perquisizioni corporali sono la regola, nudi sdraiati in cortile; i detenuti hanno un numero al posto del nome e in presenza di estranei devono tenere sempre lo sguardo volto a terra. Il personale di guardia è sempre in un atteggiamento ostile».

COSTI. Resende ha molto da dire su individui e gruppi di interesse che criticano l’esperimento degli Apac. «Per i politici in cerca di facile consenso è più normale invocare severità contro i criminali che promuovere e incoraggiare politiche di rieducazione che, per funzionare, devono basarsi su un trattamento più umano dei detenuti. Ma poi ci sono veri e propri interessi economici costituiti che si ribellano perché vengono ridimensionati. Pensate alle ditte che hanno l’esclusiva nella fornitura delle razioni alimentari ai detenuti; pensate ai posti di lavoro rappresentati dagli agenti di polizia penitenziaria, che sono più numerosi dei carcerati. Un detenuto costa allo Stato federale l’equivalente di 650 euro al mese (in Italia molto di più: siamo intorno a 7.000 euro al mese, ndr), ma negli Apac la sovvenzione è di soli 300 euro per internato. Bastano e avanzano per un regime alimentare dignitoso, perché non c’è la corruzione che disperde risorse delle carceri statali, e non ci sono gli stipendi delle guardie da pagare. Logico che tutto questo generi proteste e rancori molto interessati».

RECUPERO. «Il metodo Apac coinvolge potenzialmente tutta la società nel recupero dei criminali. Nelle associazioni di volontariato che gestiscono il progetto sulla base di una convenzione con lo Stato ci sono professionisti, comunità cristiane, insegnanti, operatori sociali, famiglie, ecc. Perché abbiamo preso coscienza che se questi nostri figli hanno sbagliato, è perché noi abbiamo fallito: come scuola, come Chiesa, come famiglia, come società. Possiamo e dobbiamo correggerci insieme».

POSATE. A un momento conviviale in un Apac, nel corso del quale i detenuti pranzavano con posate di metallo, compresi coltelli e forchette, un giornalista ha posto una domanda a Joao de Jesus, un pluriomicida: «Ma voi mangiate sempre così, o questa è una recita che avete allestito oggi per fare colpo su di noi?». «Vede quell’uomo di spalle?», ha risposto il condannato. «Quello è il giudice che mi ha condannato due volte. Io ho ammazzato cinque persone. Crede che se lo desiderassi davvero non avrei già affondato un coltello nel suo corpo? I veri malfidati siete voi: voi siete quelli che quando prendono l’aereo mangiano usando solo posate di plastica».

@RodolfoCasadei

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