Pubblichiamo la rubrica di Maurizio Tortorella contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Credo sia la prima volta che un tribunale penale aggredisce la “gogna giudiziaria” via internet. Il primato spetta a Genova, dove sono state appena depositate le motivazioni di una sentenza del 20 giugno scorso (per i cultori del genere, è la numero 3582). È una condanna per diffamazione. Stabilisce che «chi inserisce notizie a mezzo internet relative a indagini penali è tenuto a seguirne lo sviluppo e, una volta appreso l’esito positivo per l’indagato o l’imputato, deve darne conto con le stesse modalità di pubblicità. In caso contrario è configurabile il reato di diffamazione a mezzo stampa».
Il processo di primo grado ha chiuso così la vicenda della pubblicazione sul sito di un’associazione di consumatori della notizia relativa al rinvio a giudizio per concussione del presidente e vicepresidente di un’associazione, alla fine di un’inchiesta su presunti appalti irregolari. I due indagati sono stati prosciolti, ma la notizia online non è stata aggiornata.
Per il tribunale di Genova il reato sussiste in quanto non c’è dubbio che «l’omesso aggiornamento mediante inserimento dell’esito del procedimento penale» configura un comportamento diffamatorio. Per il giudice, infatti, la qualifica di un soggetto quale indagato o imputato «è certamente idonea a qualificare negativamente l’immagine, il decoro e la reputazione di una persona, soprattutto quando si tratta di soggetto noto al pubblico».
Alcuni numeri rivelatori
Quindi la notizia, che pure era vera al momento della sua pubblicazione online, avrebbe dovuto essere aggiornata perché smentita dall’evolversi del procedimento penale. «La verità della notizia – sostiene testualmente la condanna – deve essere riferita agli sviluppi d’indagine quali risultano al momento della pubblicazione dell’articolo, mentre la verifica di fondatezza della notizia, effettuata all’epoca dell’acquisizione di essa, deve essere aggiornata nel momento diffusivo, in ragione del naturale e non affatto prevedibile percorso processuale della vicenda».
La sentenza, ignorata dai siti internet come dalla stragrande maggioranza dei giornali, arriva nel momento in cui l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle camere penali (l’associazione degli avvocati penalisti) dà alle stampe un saggio rivelatore. Per sei mesi, dal giugno al dicembre 2015, gli avvocati hanno analizzato la cronaca giudiziaria di 27 quotidiani. È una massa imponente: 7.373 articoli. Quasi 7 su 10 danno notizie sulle indagini preliminari, e in particolare il 27,5 per cento tratta dell’arresto di un indagato. Ma quando il processo arriva al dibattimento, l’attenzione si dissolve: solo il 13 per cento degli articoli segue le udienze. Va ancora peggio alla sentenza: appena l’11 per cento degli articoli informa i lettori su come è andata a finire la vicenda giudiziaria che nelle fasi iniziali, invece, veniva squadernata su pagine e pagine.
Beniamino Migliucci, che dell’Ucpi è presidente, scrive che «le informazioni sulle indagini preliminari vengono sapientemente divulgate per creare consenso preventivo». Il risultato è negativo anche sulla correttezza del processo, perché si viola «la verginità cognitiva del giudice, che viene bombardato da informazioni riguardanti le indagini». Secondo lo studio, gli articoli sono colpevolisti quasi nel 33 per cento dei casi; un altro 33 per cento riporta le tesi dell’accusa senza esprimere giudizi; il 24 per cento ha toni neutri. E soltanto il 3 per cento prende una posizione garantista, se non direttamente innocentista. Soltanto il 7 per cento degli articoli riporta notizie di natura difensiva, fornite dall’avvocato dell’indagato o dell’imputato.
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