
Il Deserto dei Tartari
Critica filosofica alla banalotta campagna dell’Atm

Ci risiamo: il costo dei titoli di viaggio continua a salire (nel giro di undici anni è più che raddoppiato passando da 1 a 2,20 euro per corsa), i conducenti dei mezzi di superficie e gli addetti dei mezzanini della metropolitana subiscono aggressioni da parte di passeggeri senza biglietto o di balordi, il giudice del lavoro condanna l’azienda per discriminazione perché non consente ai suoi dipendenti con figli disabili di usufruire di orari di lavoro compatibili con le esigenze terapeutiche dei loro cari (Repubblica, cronaca di Milano, 17 luglio 2023), ma per l’Atm, Azienda Trasporti Milanesi, la priorità è usare i soldi dei contribuenti per fare propaganda all’ideologia diversitaria nella quale evidentemente si riconoscono i suoi dirigenti. Dopo la campagna dal titolo “La diversità ci rende unici” dell’aprile 2022, nella quale si sermoneggiava che «genere, età, origini, credo, abilità, scelte personali: segni della nostra unicità. Per noi di Atm sono un valore. E anche un impegno», l’azienda torna alla carica nel pieno dell’estate 2023 con un “Siamo tutti unici” stampatello a colori diversi per ciascuna lettera, e la dichiarazione di intenti: «Rispettiamo l’identità di genere, l’orientamento, l’origine, l’età, la religione e le abilità di tutti. Sui nostri mezzi, nei nostri spazi (e già che ci siamo anche fuori)».
È l’unicità a renderci diversi
In un post del 19 aprile 2022 in questo blog formulavo una serie di critiche all’iniziativa; con la nuova campagna di manifesti incollati lungo le banchine delle linee della metropolitana l’Atm si merita una seconda razione, ma anche un ringraziamento perché la sua pervicacia politica permette di completare l’analisi di sedici mesi fa e anche di fare un discorso più ampio che riguarda il sistema dominante di cui l’azienda e l’amministrazione “di sinistra” del Comune di Milano sono parte.
Quel che non avevo evidenziato allora è che i termini dello slogan dell’Atm lanciato nell’aprile 2022 vanno invertiti: non è la diversità che ci rende unici, ma è l’unicità che ci rende diversi. È perché «ogni uomo è unico e irripetibile» (Giovanni Paolo II, messaggio Urbi et Orbi del Natale 1978) che ognuno di noi è diverso da tutti gli altri. Mentre non è vero il contrario. Se la sottolineatura va a diversità che sono attributi di gruppi di persone (la razza, il sesso, l’orientamento sessuale, l’identità di genere, la disabilità, la fede religiosa, ecc.), ebbene quelle diversità non mi conferiscono nessuna unicità: al contrario, mi confinano in un gruppo di appartenenza, riducono la mia persona a una sola caratteristica.
L’unicità personale non ha a che fare con nessuna diversità catalogabile, è una realtà immateriale e ineffabile, di cui è segno la nostra fisicità unica: anche in due gemelli omozigoti troverete qualche dettaglio anatomico che li rende morfologicamente diversi. La nostra diversità fisica è segno della nostra unicità, non le altre diversità, quelle che piacciono all’Atm: si tratta di diversità che ci rendono non-unici, che fanno di noi esemplari di determinate categorie, e come tali sostituibili e interscambiabili. Ritroviamo questo errore logico nella campagna di quest’anno, che all’asserzione “Siamo tutti unici” fa seguire il consueto elenco politicamente corretto di categorie: identità di genere, orientamento sessuale, origine, età, religione, abilità psico-fisiche. Elenco che contraddice l’affermazione che siamo tutti unici.
Ideologia diversitaria
Ora, l’ideologia diversitaria è un’ideologia, e come per tutte le ideologie la sua natura è di essere un discorso che nasconde e legittima interessi di potere. Quali sono questi interessi e come vengono occultati attraverso l’esaltazione della diversità/unicità? L’ideologia diversitaria si presenta come progressista, ma in realtà è al servizio della conservazione del potere delle élite dominanti e del funzionamento del turbocapitalismo. La sua funzione infatti è quella di dividere i lavoratori e di occultare la vera natura della loro alienazione, che è economica. Si fa credere al singolo lavoratore che il suo problema è la discriminazione di cui è oggetto, normalmente da parte di persone del suo stesso livello sociale ed economico, a causa della sua razza, religione, origine straniera, orientamento sessuale, identità di genere, ecc., e non il fatto che è economicamente sfruttato dall’azienda per cui lavora e più in generale dal sistema economico-finanziario globale di cui l’azienda per cui lavora è parte.
Anziché solidarizzare col suo compagno di lavoro bianco, cristiano, eterosessuale che ha i suoi stessi problemi economici e lavorativi, lui che è nero, musulmano e omosessuale si sentirà gratificato della solidarietà di gruppo delle organizzazioni etniche, islamiche, Lgbtq, esaltate e legittimate dai media, dagli intellettuali e dalle stesse grandi aziende multinazionali, contro i pregiudizi veri o presunti di bianchi, cristiani ed eterosessuali. Non contro il precariato, il lavoro nero, i salari bassi, le pensioni da fame di domani, l’impossibilità di mettere su famiglia nelle attuali condizioni di retribuzione. L’ideologia identitaria, che si presenta come progressista, ha in realtà lo scopo di rompere l’unità di classe dei lavoratori per sfruttarli meglio.
Soggetti di rendimento
Lo stesso discorso vale per il concetto di “unicità” personale: nell’epoca postmoderna in cui viviamo non rimanda più allo spirito, al mistero, all’essere stati chiamati dal nulla, al miracolo dell’io; l’essere umano unico postmoderno guarda la propria immagine nello specchio e decide che va migliorata, si ripiega su di sé per valutare punti di forza e punti di debolezza, ansiosamente cerca di migliorare il proprio potenziale, di migliorarsi per vivere più pienamente. Ma tutto questo ha un significato che attiene all’economia politica.
Come scrive Byung-Chul Han ne La società della stanchezza, l’”unicità” conduce all’autosfruttamento del lavoratore:
«La società del XXI secolo non è più disciplinare, ma una società del rendimento. Né i suoi abitanti sono chiamati “soggetti di obbedienza”, ma “soggetti di rendimento”. Questi soggetti sono imprenditori di se stessi».
Lo sfruttamento non è scomparso, ma è camuffato ed ora si basa sull’auto-sfruttamento del soggetto:
«Questo è molto più efficace dello sfruttamento da parte di altri, perché è accompagnato dalla sensazione di libertà. Lo sfruttatore è lo stesso sfruttato. Vittima e carnefice non possono più differenziarsi».
Uberizzazzione
Il filosofo tedesco-coreano non è l’unico pensatore che si è reso conto della situazione paradossale in cui ci troviamo, e di quanto sia ipocrita e funzionale al sistema dominante l’enfasi sul valore della diversità e dell’unicità.
Ritroviamo considerazioni simili presso accademici di diverso orientamento culturale e politico. Scrive per esempio circa il neoliberismo Olivier Roy nel suo L’aplatissiment du monde (pp. 205-6):
«L’individuo è concepito come libero attore del suo destino, e il salariato come imprenditore di se stesso nonostante il rapporto di dipendenza che gli è proprio: quella che viene definita “l’uberizzazione” è in procinto di diventare il modello che regge non solamente il rapporto di lavoro, ma l’insieme dei rapporti sociali. Perché questa “uberizzazione” funzioni, occorre sviluppare l’illusione dell’autonomia, bisogna valorizzare l’individuo, farne il centro della relazione sociale, dunque tenere conto dell’immagine che egli ha di se stesso. Anche se è autorizzato e persino incoraggiato a scegliersi, ciò avviene esclusivamente secondo un registro che non mette in causa il suo rapporto con la “vera” dominazione: può scegliere la sua identità di genere e realizzare i propri fantasmi, deve essere rispettato, la sua identità diventa oggetto di tutte le sollecitudini, e tanto più in quanto lo spazio dove egli si realizza è precisamente quello della desocializzazione, che lascia campo libero al neoliberismo. È così che la sua emancipazione immaginaria lo porta a consumare i prodotti derivati dalla sua alienazione».
Potere di condizionamento
Su una lunghezza d’onda simile Patrick Deneen in Regime Change – Towards a Postliberal Future critica le università americane, che dietro il paravento delle politiche di inclusione producono e riproducono un’élite che esercita un potere di condizionamento smodato sul resto della popolazione, in particolare sulla classe lavoratrice:
«”Diversità” e “inclusione” sono, da una parte, impegni per l’uguaglianza, ma concepiti in modo che si adattano perfettamente alla struttura meritocratica, e lasciano saldamente in funzione le strutture selettive del nuovo ordine aristocratico e permettono che non vengano messe in discussione. La crescente adozione istituzionale di omogenee e uniformi politiche di “diversità, equità e inclusione” si collega molto strettamente al ruolo svolto dalle università di élite in questo processo di selezione. E coincide fin troppo considerevolmente con una divisione sempre più intensa fra coloro che hanno e coloro che non hanno, nel determinare e perpetuare la quale la nostra élite accademica svolge un ruolo assai prominente».
Due accademici stranieri, un francese e un americano, assegnabili rispettivamente al campo progressista e a quello conservatore, formulano considerazioni simili sull’ideologia diversitaria che tanto entusiasma l’Atm. Se fossero ancora fra noi, Pier Paolo Pasolini e Augusto Del Noce scriverebbero cose simili secondo il rispettivo genio. Servirebbero nuove voci nazionali per illuminare le menti, e soprattutto per esorcizzare la melassa politicamente corretta che ci soffoca fin nelle gallerie della metropolitana.
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1 commento
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Vivo a Milano e dunque viaggio in Atm da 30 anni.
Non ho mai visto un conducente, un controllore, un impiegato Atm Point, un addetto alla sicurezza Atm che fosse nero, cinese o dichiaratamente omosessuale. Tantomeno down, se vogliamo rifarci alle leggi vigenti in ordine alla discriminazione. Di obesi o anoressici nemmeno l’ombra.
Questa valorizzazione delle diversità avrebbe dovuto emergere almeno una volta in trent’anni no?
O forse si riferiscono al fatto che gli addetti alle pulizie delle banchine e dei cessi (non se ne escano con il discorso degli appalti esterni perchè le cooperative le scelgono loro) sono sì quasi sempre di etnia, origine e molto probabilmente religione diversi?
Tutta qui la loro D.E.& I aziendale?
A posto così, grazie…
Ps
La Sua intuizione “non è la diversità che ci rende unici, ma è l’unicità che ci rende diversi” è geniale. Grazie
Roberto Zandomeneghi con account in prestito