Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Poiché non siamo fra quelli che ritengono la nostra «la Costituzione più bella del mondo», né siamo tra coloro che la reputano un testo sacro intangibile e immodificabile, che essa possa essere cambiata ci pare una delle opzioni possibili e, non ve lo nascondiamo, pure auspicabili.
La riforma Renzi-Boschi, come abbiamo cercato di illustravi qui, va però nella direzione opposta a quella da noi auspicata: anziché delegare, decentrare, mostrare fiducia nell’iniziativa altrui, tende ad accentrare, controllare, ingabbiare (lasciando, tra l’altro, immutati i privilegi delle Regioni a statuto speciale che, quelle sì, andrebbero ripensate). In più, non fa risparmiare quel che promette, né rende così rapidi i processi decisionali, come invece ci raccontano.
Insomma, noi siamo dove siamo sempre stati: ci vuole più federalismo (fino a quello fiscale), più sussidiarietà orizzontale e verticale, più fiducia nelle iniziative della società e meno Stato, questo pachiderma che va fatto uscire dalla cristalleria e limitato nel pur fondamentale ruolo di garante e controllore.
Lo sappiamo cosa state pensando, ed è anche un nostro cruccio: se vince il “no”, sarà l’ennesimo “no” di questa Italia che non riesce mai a cambiare. È vero. C’è una parte del paese – che è quella rappresentata dai vari Rodotà e Zagrebelsky, sindacati e sinistra non riformista – che è perennemente ferma a difesa dello status quo, perché lo status quo sono loro, e i loro interessi. Ma fatta così come è fatta, questa riforma costituzionale, aggravata da una legge elettorale che peggiora ancor più la situazione, ci spinge a essere per il “no”. Bisogna far uscire l’elefante dalla cristalleria, non far entrare il secondo.
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