Questo articolo è tratto da VoceLibera – L’avevo incontrato l’ultima volta una decina d’anni fa nello studio/biblioteca di via del Senato a Milano. Si era discusso di libri, della mostra che – come ogni anno – si sarebbe tenuta puntualmente con il sostegno di amici e clienti di Publitalia 80. Più che una passione una vera ossessione, quella dei libri, per il Dottore; non ha mai resistito al fascino, al profumo del tomo antico e investiva molto in libri, tanti anche quelli che gli venivano regalati da amici e conoscenti, sicuri che non sarebbero stati doni riciclati in altra occasione.
Gli ho scritto subito, di getto, quando ho saputo che si trovava in carcere a Parma. Una breve lettera di incoraggiamento e vicinanza, piena dei suggerimenti che potevo permettermi di offrirgli data la mia anzianità di galera. In quella prima lettera scrivevo al “collega” detenuto; pochi consigli, forse anche banali, con l’obiettivo di alleviare l’enorme peso che devasta corpo e mente, soprattutto durante i primi mesi di prigione. Dirgli di leggere sarebbe stato scontato e superfluo; lo consigliavo di adoperarsi per gli altri, per quelli che non sapevano leggere e scrivere o semplicemente per chi aveva voglia di ascoltarlo mentre parlava dei filosofi che conosceva a menadito. Ma anche di non cedere alle provocazioni, alle umiliazioni che inevitabilmente gli sarebbero arrivate. Cercavo di metterlo in guardia sul meccanismo perverso che l’avrebbe coinvolto, perché c’è una pena aggiuntiva che spetta ai “colletti bianchi”, in special modo alle persone note: si tratta di una sorta di vendetta sociale messa in atto sia dai detenuti che dalle guardie che improvvisamente si sentono autorizzati a ristabilire la parità sociale- e quale miglior contesto – che inizia con il confidenziale e strafottente “tu”, e giunge fino al far mancare cuscino o carta igienica. Un potente parificato agli ultimi, una sorta di nonnismo da caserma, molto esasperato e carico di cinico risentimento.
E puntualmente è arrivata, velocissima, la lettera di risposta. Marcello non faceva altro che confermare le mie previsioni: umiliazioni quotidiane e tanta solitudine. Mi raccontava della sua ora d’aria: «Caro Claudio, mentre cammino immagino di essere un monaco, volontariamente rinchiuso in un convento a meditare per isolarmi e disintossicarmi dalle umane miserie…», commentava le centinaia di lettere che gli arrivavano e lo tenevano fortunatamente impegnato per molte ore a leggere e rispondere, a tutti, anche agli sconosciuti che semplicemente gli esprimevano genuina solidarietà. Ha cercato in ogni modo di farsi assegnare come volontario alla biblioteca, era prevedibile, ma non c’è stato verso. Il Dottore ha dovuto toccare con mano la rigidità dei regolamenti e l’assurdità di cui è impregnata la prigione, che preferisce negare anche il concedibile per affermare la supremazia dell’istituzione sull’uomo.
Dalle lettere successive ho colto qualche segnale che mi lasciava intravedere qualche piccola concessione: carta intestata “Marcello Dell’Utri”, color avorio (di ottima qualità) e scrittura a tratto fine, che poteva sembrare l’adorata stilografica ma sapevo poter essere tutt’al più una Pilot, che comunque già sarebbe stata una conquista enorme per un carcerato. Immancabili le citazioni letterarie, «invecchio, sempre qualcosa imparando…» alternate da sfoghi umani, in una busta con il visto di controllo della censura. Per qualche mese non ci siamo scritti, avevo deciso di lasciarlo in pace in modo che potesse far depositare l’ansia e la preoccupazione per le condizioni di salute che andavano peggiorando, e mi auguravo che anche altri usassero la stessa cautela. Poi mi sono arrivati gli auguri per natale, carichi di tristezza e rassegnazione ed ho capito che il Dottore stava male e non solamente per i malanni fisici.
Oggi il settantacinquenne Dell’Utri si trova a Rebibbia, dove è stato trasferito dopo una sosta all’ospedale Sandro Pertini di Roma per l’aggravarsi delle condizioni di salute. Ha problemi al cuore e alla prostata, è diabetico. E sta scontando una condanna arrivata dopo un procedimento interminabile, cominciato nel ’94 e concluso nel 2014. Una situazione surreale.
Ci dovrà rimanere ancora quattro o cinque anni se non accade qualcosa di nuovo. Per un reato che nel codice non c’è.
Lui da sempre si proclama innocente, i giudici considerano provati i suoi rapporti con boss e padrini. Ma a rendere ancora più controversa la sua situazione, è il pasticcio che si è creato intorno alla sua sentenza: il verdetto di colpevolezza assolve infatti Dell’Utri per i fatti successivi al 1992. Questo in termini politici ha un valore altissimo perché è fra il ’93 e il ’94 che nasce Forza Italia, partito che, secondo molti critici, avrebbe il peccato originale di essere venuto al mondo al crocevia di interessi e capitali di origine mafiosa. Una tesi suggestiva, esplorata da un labirinto di indagini nate l’una dall’altra in una successione inestricabile, ma spazzata via dal verdetto finale.
Non solo: l’amputazione temporale fa zoppicare la sentenza perché la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha spiegato, nella vicenda parallela e sostanzialmente sovrapponibile di Bruno Contrada, che prima del ’94 il reato di concorso esterno non era codificato, meglio era troppo vago e dunque non contestabile.
Per questo gli avvocati hanno presentato un ricorso a Strasburgo che però cammina su gambe molto lente e verrà esaminato, con ogni probabilità, fra anni. E questo è intollerabile.
È giunto il momento di uscire allo scoperto: prendano posizione amici, ex amici, ex collaboratori, nani, ballerine e saltimbanchi. Marcello Dell’Utri non deve morire in carcere. Alzino la voce tutti quelli della prima ora, quelli che hanno visto nascere dapprima il fenomeno imprenditoriale Publitalia 80 e poi, con la stessa impronta innovativa, Forza Italia. Molti di loro hanno percorso una brillante carriera politica o manageriale, qualcuno è inciampato nelle manette ma si è rialzato, altri siedono su poltrone che contano. Tutti, indistintamente, sono allievi di Marcello Dell’Utri, ma non per questo rischiano di essere incriminati per “concorso esterno in senso di umanità”.
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