Vogliono i vostri soldi. Vogliono farvi pagare i fallimenti bancari. Vogliono far morire le banche del Sud dell’Europa e sifonare risparmio e investimenti in quelle del Nord. Per farlo, hanno mandato avanti Jeroen Dijsselbloem, il 47enne ministro delle Finanze olandese di estrazione socialista che si sta beccando i fulmini dei paesi del Sud Europa e dei piccoli stati dell’Unione centri di industria finanziaria. In poche settimane il nuovo presidente dell’Eurogruppo si è fatto la fama di gaffeur e di elefante a zonzo nella cristalleria, di uomo che dice le cose giuste al momento sbagliato, che propone politiche corrette con modi scorretti o che si lascia prendere la mano, come nel caso dell’abortita proposta di prelievo forzoso sui conti correnti bancari ciprioti sotto i 100 mila euro. Ma dove si voglia andare a parare con la filosofia moralista e rigorista in materia di fallimenti e salvataggi bancari esposta in un’ormai celebre intervist alla Reuters e al Financial Times da colui che la stampa britannica ha già ribattezzato Dijsselblood (“Dijssel il sanguinario”) e quella francese Dijsselbourde (“Dijssel-fesseria”), l’hanno capito in tanti. Per esempio il ministro degli Esteri del Lussemburgo, paese finito nel mirino delle dichiarazioni del neopresidente dell’Eurogruppo all’indomani del pasticcio di Cipro: «La Germania non ha il diritto di decidere che modello economico-finanziario debbano seguire gli altri paesi», ha commentato Jean Asselborn. «Non si può permettere che sotto la copertura di questioni tecnico-finanziarie altri paesi vengano soffocati. Non è possibile che Germania, Francia e Regno Unito dicano “ci bastano i centri finanziari di questi tre grandi paesi e gli altri devono essere chiusi”. Mirare all’egemonia è sbagliato ed è antieuropeo».
Lo schietto Asselborn parla ovviamente pro domo sua. Mentre gli asset bancari di Cipro erano pari a 8 volte il Pil dell’isola, quelli del Lussemburgo equivalgono attualmente a 22 volte il Pil nazionale di questo paese di 520 mila abitanti. Dijsselbloem ha citato il Lussemburgo nella sua famosa intervista come uno dei paesi che devono dare una sistemata al loro regime bancario, perché in caso di crisi l’Europa non verrà necessariamente in soccorso, ma lascerà cadere sugli investitori e sui grandi depositanti della banca o delle banche in questione gran parte del peso del salvataggio, come si sta facendo per Cipro. Il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble ha condizionato il “sì” tedesco al piano di aiuti per le banche cipriote all’impegno da parte del governo di Nicosia a ridimensionare l’industria finanziaria locale fino a portarla nei parametri della media dell’Unione Europea, che vede asset bancari pari a circa 3,5 volte il Pil dei 27 paesi. Eppure quando parla di mire egemoniche travestite da moralismo Asselborn ha totalmente ragione. Vediamo perché.
Apparentemente la filosofia di Dijsselbloem, che è poi quella dei paesi della tripla A dentro all’eurozona (Germania, Olanda e Finlandia), è la più morale e coerente che si possa immaginare. Anziché, dice lui, far pesare sui contribuenti il salvataggio delle banche europee sull’orlo del fallimento, attraverso interventi nazionali o usando i fondi del Meccanismo di stabilità europeo (Mse), facciamolo pesare su chi ha accettato il rischio di investire nella banca per ottenere profitti: azionisti, obbligazionisti e depositanti sopra i 100 mila euro; ciò avrà il duplice effetto di smorzare l’antieuropeismo dei contribuenti del Nord Europa stufi di finanziare piani di salvataggio per banche che stanno in Irlanda, Grecia, Spagna, Cipro, eccetera, e di favorire una selezione delle banche più sane: gli investitori diventeranno molto più esigenti quando capiranno che le loro eventuali perdite in un crac bancario non saranno coperte dallo Stato o da Bruxelles, ma le soffriranno loro in pieno. Le banche saranno costrette a essere più prudenti e serie se non vorranno essere disertate dagli investitori. Dove sta l’errore, dove sta l’ipocrisia in questo ragionamento?
Pazzo chi lascia il denaro laggiù
Innanzitutto, non è corretto mettere sullo stesso piano azionisti e depositanti, nemmeno quelli che hanno sul conto più di 100 mila euro. A meno che non si tratti di un caso come quello di Cipro, dove i semplici conti correnti fruttavano interessi attivi attorno al 5 per cento. Ma nel resto dell’eurozona, dove un conto corrente bancario non frutta più dello 0,5 per cento, il depositante non è uno in cerca di rischi in vista di un profitto: le leggi nazionali ispirate da Bruxelles costringono ormai tutti i cittadini europei a compiere innumerevoli operazioni di pagamento in entrata e in uscita solo per via bancaria; tenere il denaro in un conto corrente bancario non è una scelta, bensì un obbligo.
Ma questo non è il difetto più grosso della proposta. Leggiamo quel che scrive il sempre chiarissimo Jeremy Warner del Daily Telegraph sul suo blog a proposito del lasciare fallire le banche, ovvero caricare il peso del salvataggio sugli investitori, come propone Dijsselbloem: «Si lascerebbe accadere questo se ad andare in bancarotta fosse una banca veramente grande e di importanza sistemica? No, non lo si permetterebbe. È impossibile immaginare i depositanti sopra i 100 mila euro in banche come Royal Bank of Scotland, Bnp Paribas, Deutsche Bank o Citigroup oggetto di un prelievo forzoso ai fini di un salvataggio interno. E questo perché il grosso di quei depositi appartiene a sua volta ad altre banche o a entità maggiori. Se i depositanti perdessero i loro soldi, si produrrebbe un effetto a cascata di insolvenza nell’insieme di tutta l’economia: da qui il concetto di “too big to fail” (troppo grande per lasciarla fallire, ndt). E si può inoltre veramente immaginare che fallimenti o salvataggi interni del genere potrebbero aver luogo nella legione di piccole casse di risparmio presenti in Germania? Queste piccole banche sono implicitamente garantite dallo Stato tedesco. La Germania non farà nulla per minare le fondamenta del suo proprio modello bancario. I ciprioti hanno ragione a pensare che sono stati trattati ingiustamente. Se la Laiki Bank fosse stata una cassa di risparmio tedesca, sarebbe stata salvata dallo Stato senza chiedere nulla agli investitori. Ma c’è anche un’implicazione molto più preoccupante. Se i depositi sopra i 100 mila euro nelle banche di media grandezza nei paesi della periferia dell’eurozona diventano investimenti a rischio, sarebbe un pazzo chi continuasse a depositarli in quelle banche, a meno che non gli venissero offerti tassi di interesse attivi molto alti. Di conseguenza, il grosso del denaro finirà per essere risucchiato fuori dalle economie periferiche e trasferito nelle più sicure economie del Nord Europa, dove la regola del “too big to fail” continua a valere». È quel che scrive anche Martin Wolf sul Financial Times: «La conclusione ideale da trarre dall’imbroglio cipriota sarebbe che tutte le banche dell’eurozona hanno bisogno di essere maggiormente capitalizzate. Ma la conclusione reale probabilmente sarà un’altra: le banche più sicure saranno quelle delle giurisdizioni più forti dal punto di vista fiscale. L’alternativa a questa situazione sarebbe una vera unione bancaria. Ma ciò richiederebbe o l’unione fiscale, o la disponibilità ad applicare lo stesso severo regime di risoluzione a tutte le banche. Nessuna delle due soluzioni appare probabile».
Sono sempre più numerosi, al contrario, coloro che denunciano un tentativo tedesco di ottenere, nel quadro del negoziato per l’unione bancaria, l’istituzione di un fondo di risoluzione bancaria congegnato in modo tale da coinvolgere investitori e grandi depositanti nei salvataggi interni delle banche in difficoltà, fatta salva la discrezionalità dei governi nazionali che possono decidere di partecipare al salvataggio. La politica di due pesi e due misure della Germania è evidente da certi precedenti: il salvataggio delle banche irlandesi nel novembre 2010 con fondi europei (quelli del Fondo europeo di stabilità finanziaria, antenato del Mse) si fece col consenso della Germania, anche perché in quel momento negli istituti irlandesi erano presenti 78,3 miliardi di euro di investimenti tedeschi; fra il dicembre 2008 e il gennaio 2009 la Commerzbank, la seconda più grande banca tedesca, fu salvata dal governo con un’iniezione di 18,2 miliardi di euro: meno di sei mesi prima aveva acquisito un’altra banca, la Dresdner Bank, per 5,5 miliardi di euro.
Ripercussioni sull’economia reale
Fra gli effetti immediati delle parole di Dijsselbloem c’è un’ulteriore spinta al boom del mercato dell’oro: le ombre sulla sicurezza dei depositi nelle banche dell’eurozona spingono gli investitori a rifugiarsi nel metallo giallo. La Jewellers Trade Services Partners di Londra segnala che nella settimana dopo la crisi di Cipro gli acquirenti di oro sono stati del 65 per cento più numerosi di quelli registrati nella settimana seguente al tracollo di Lehman Brothers. Ma il peggio deve ancora arrivare. Ammonisce Barclays Bank in una sua nota all’indomani dei fatti ciprioti: «La decisione di far partecipare al salvataggio i grandi investitori e i grandi depositanti avrà con tutta probabilità un impatto sugli strumenti di capitale e di credito di quelle banche dell’eurozona che sono percepite deboli». Queste ultime cioè dovranno offrire interessi più alti, cosa ben difficile in un momento come questo, con le banche a corto di liquidità. Per cui la cosa più facile è che prosegua la fuga di capitali da Sud verso Nord. Con le conseguenze che Fabio Pavesi paventa sul Sole 24 Ore: «Se togli fondi alle banche del Sud abbassi la loro base di depositi, costringi le banche a un brusco calo dei prestiti e avviti l’economia reale nella spirale recessiva. È accaduto in Grecia dove sono usciti dalle banche elleniche 70 miliardi di liquidità. È accaduto in Spagna dove gli stranieri si sono affrettati a riportare a casa oltre 60 miliardi. Ed è accaduto anche in Italia, dove secondo le stime dell’Abi il calo dei depositi stranieri è tuttora del 12 per cento su base annua». Ma da questo orecchio i paesi creditori dell’eurozona, Germania in testa, continuano a non volerci sentire.