Dopo aver viaggiato per 500 milioni di chilometri, per dieci anni, inseguendo la cometa 67/P Churyumov-Gerasimenko, la navicella Philae si è staccata dalla sonda Rosetta ed è atterrata sul corpo celeste. «Guardando le foto di quel minuscolo ragno bianco nel nero dello spazio, pareva una pretesa assurda inseguire la folle corsa di una cometa, e catturarla, e gettare nel suo ghiaccio le due ancore che, come una nave in porto, l’hanno assicurata alla meta», scrive Marina Corradi oggi su Avvenire. Eppure «è successo».
«A NOI COSA RESTA?». All’atterraggio i membri dell’Esa, l’Agenzia spaziale europea, sono scoppiati in un applauso perché trivellando la piccola cometa di quattro chilometri di diametro, «rimasta uguale a come era 4,6 miliardi di anni fa», si potrebbero scoprire «i segreti dell’origine stessa del sistema solare».
«Ma a noi», si chiede Corradi, «che nulla capiremo mai di ciò che Philae ci trasmetterà attraverso Rosetta», che cosa resta? «Da ignoranti quali siamo, resta uno stupore, un thauma anche più grande: per ciò che gli uomini (…) hanno saputo fare e per quelle prime immagini dalla voragine dello spazio, con i candidi vergini crepacci di neve siderale».
«LA COMETA CANTA». Quelle immagini, continua, «ci inducono una sorta di silenziosa devozione: ci viene in mente Dio del libro di Giobbe (“Per quale via si va dove abita la luce?/ E dove hanno dimora le tenebre/ perché tu le conduca al loro dominio…”)». Lo stupore è anche ciò che ha accomunato scienziati e bambini quando si è scoperto che «la cometa canta (video in fondo, ndr): è un suono fatto dalle oscillazioni del campo magnetico attorno al suo corpo (…). È come una lingua mai udita, eppure chissà che in quelle misteriose frequenze, come nella stele di Rosetta, non ci sia un segreto da decifrare. Intanto noi, ignoranti, lo abbiamo ascoltato con commozione e stupore: nel silenzio di abissi dell’universo, la cometa canta».