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Cina. Può Pechino manipolare la Chiesa fino a snaturarla?

Spiegazione di quanto sta accadendo dopo la notizia che a due vescovi sotterranei sarebbe stato chiesto di dare le dimissioni in favore di due vescovi scomunicati

Leone Grotti
01/02/2018 - 3:00
Chiesa
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«L’azione della Santa Sede non risponde a logiche mondane. La finalità principale nel dialogo in corso è quella di salvaguardare la comunione nella Chiesa. Ci vuole più umiltà e spirito di fede per scoprire insieme il disegno di Dio per la Chiesa in Cina». Ha parlato così ieri in un’intervista alla Stampa il segretario di Stato Vaticano, il cardinale Pietro Parolin, nel tentativo di mettere fine alla bufera scoppiata nell’ultima settimana riguardo ai colloqui che vanno avanti da tre anni tra Roma e Pechino. L’obiettivo è quello di normalizzare la vita dei fedeli cattolici nella Repubblica popolare, a partire dalla nomina condivisa dei vescovi, ma c’è chi accusa la Santa Sede di «svendere la Chiesa cattolica in Cina» per trovare un «patto a tutti i costi» con il partito comunista.

La situazione della Chiesa in Cina è complessa e delicatissima. La Conferenza episcopale cinese infatti non riconosce l’autorità del Papa, considerato un capo di Stato straniero e ostile, e il Vaticano di conseguenza non la riconosce come legittima. La vita ordinaria della Chiesa è gestita da un ente legato al partito comunista, chiamato Associazione patriottica (Ap), che si arroga il diritto di organizzare messe, catechismo, seminari e addirittura ordinazioni di vescovi illeciti, come se fosse la Santa Sede e senza l’autorizzazione del Papa. Per sfuggire al controllo del partito, molti sacerdoti e vescovi si rifiutano di iscriversi all’Ap, pagando la fedeltà alla Santa Sede con l’obbligo di praticare la fede in clandestinità. Nonostante nel 2007 Benedetto XVI abbia abolito formalmente con una lettera la distinzione tra comunità cattolica ufficiale e sotterranea, ribadendo che esiste una sola Chiesa cattolica in Cina, il riavvicinamento delle due comunità non si è ancora concluso, dal momento che Pechino continua a insistere che i cattolici, al pari dei fedeli di tutte le altre religioni, «devono seguire le direttive del partito comunista». Attualmente in Cina ci sono sette vescovi illeciti, tre scomunicati pubblicamente, ordinati senza mandato del Papa e ancora non riconosciuti dal Vaticano.

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A rendere necessario l’intervento del cardinale Parolin è stato un articolo uscito il 22 gennaio su AsiaNews. L’agenzia del Pime specializzata sull’Asia ha rivelato che nell’ambito dei dialoghi tra Cina e Vaticano per la normalizzazione dei rapporti, è stato chiesto a dicembre a due vescovi sotterranei, ordinati regolarmente con mandato papale, monsignor Pietro Zhuang Jianjian di Shantou e monsignor Giuseppe Guo Xijin di Mindong, di dare le dimissioni e lasciare la cattedra a due vescovi scomunicati, che la Santa Sede sarebbe in procinto di riconoscere e riabilitare.

Il riconoscimento dei sette vescovi illeciti da parte del Vaticano è uno dei punti più spinosi al centro dei colloqui. In cambio, Pechino dovrebbe riconoscere circa 20 candidati all’episcopato per la comunità ufficiale nominati dalla Santa Sede in questi anni; alcuni sono già stati ordinati in segreto; in più, Pechino dovrebbe accettare circa 40 vescovi della comunità sotterranea. In generale, da indiscrezioni dei media, sembra che la bozza di accordo tra Roma e Pechino preveda che in futuro sia la Cina a presentare al Vaticano alcuni nomi tra i quali il Papa dovrà poi scegliere i futuri vescovi in caso di gradimento.

Per chiedere conto a papa Francesco di quanto sta accadendo in Cina e per portargli personalmente una lettera firmata da monsignor Zhuang, il 10 gennaio il cardinale Joseph Zen Ze-kiun, arcivescovo emerito di Hong Kong da molti considerato troppo critico verso i tentativi del Vaticano, si è recato a Roma per parlare privatamente con il Papa. In un articolo pubblicato il 29 gennaio su AsiaNews ha scritto che cosa gli avrebbe detto Francesco: sono al corrente di quello che sta succedendo e «ho detto ai miei collaboratori nella Santa Sede di non creare un altro caso Mindszenty». Il riferimento è al cardinale ungherese, arrestato, torturato e condannato all’ergastolo nel 1948 quando i comunisti presero il potere in Ungheria e che si oppose sempre all’allora politica conciliante nei confronti del regime da parte del Vaticano, che accettò nomine di vescovi gradite al partito comunista.

Nel suo articolo il cardinale Zen si chiedeva anche se fosse mai possibile trovare un terreno comune «con un regime totalitario» e se non fosse piuttosto meglio «accettare la persecuzione, ma rimanendo fedele a se stessi». Terminava domandando: «Sono forse io il maggior ostacolo al processo di accordo fra il Vaticano e la Cina? Se questo accordo è cattivo, sono più che felice di essere un ostacolo».

Il cardinale Parolin ha voluto rispondere indirettamente a tutte queste affermazioni precisando che «tutti i collaboratori di papa Francesco agiscono di concerto con lui» e che «tutti nutriamo la fiducia che, una volta considerato adeguatamente il punto della nomina dei vescovi, le restanti difficoltà non dovrebbero essere più tali da impedire ai cattolici cinesi di vivere in comunione tra di loro e con il Papa». Inoltre, ha aggiunto, «è importante ribadirlo: nel dialogo con la Cina, la Santa Sede persegue una finalità spirituale: essere e sentirsi pienamente cattolici e, al contempo, autenticamente cinesi. Per curare le ferite ancora aperte occorre usare il balsamo della misericordia. E se a qualcuno viene chiesto un sacrificio, piccolo o grande, deve essere chiaro a tutti che questo non è il prezzo di uno scambio politico, ma rientra nella prospettiva evangelica di un bene maggiore, il bene della Chiesa di Cristo. La speranza è che si arrivi, quando il Signore vorrà, a non dover più parlare di vescovi “legittimi” e “illegittimi”, “clandestini” e “ufficiali” nella Chiesa in Cina, ma ad incontrarsi tra fratelli, imparando nuovamente il linguaggio della collaborazione e della comunione. Ci vuole più cautela e moderazione da parte di tutti per non cadere in sterili polemiche che feriscono la comunione e ci rubano la speranza di un futuro migliore».

Papa Francesco ha più volte ricordato che il Vaticano non «cerca un accordo a tutti i costi» e lo stesso cardinale Zen ha spesso affermato che «il dialogo è necessario. Ma bisogna interrogarsi sulla buona volontà del governo cinese». In una recente intervista a Tempi monsignor Savio Hon Tai-Fai, nunzio apostolico in Grecia, già segretario di Propaganda Fide, ha ribadito da un lato che la misericordia da parte della Chiesa cattolica nei confronti dei vescovi scomunicati è necessaria, dall’altro che «i vescovi devono ammettere però di avere sbagliato. Senza pentimento che perdono sarebbe? E deve avvenire davanti alla comunità. L’ordinazione illegittima è stata di pubblico dominio, dunque anche la richiesta di perdono e la sua concessione devono esserlo. Sento tante voci sull’imminente conclusione dell’accordo, ma dove sono le manifestazioni pubbliche di pentimento e di perdono? Io non le vedo». Inoltre, «si può dire che c’è libertà religiosa quando Pechino manipola la Chiesa cattolica fino a snaturarla? Una Chiesa costretta ad obbedire al partito e non al Papa non è più cattolica».

I colloqui tra Cina e Vaticano sono ancora in corso e al di là delle indiscrezioni non c’è ancora nulla di ufficiale. Niente è stato deciso. Come dice il cardinale Parolin, «nessuno, in coscienza, può dire di avere soluzioni perfette per tutti i problemi» e «la finalità principale della Santa Sede nel dialogo in corso è quella di salvaguardare la comunione nella Chiesa, nel solco della genuina tradizione e della costante disciplina ecclesiastica», affinché i cattolici «possano professare la propria fede con serenità. Confidiamo che i fedeli cinesi, grazie al loro senso di fede, sapranno riconoscere che l’azione della Santa Sede è animata da una fiducia in Dio che non risponde a logiche mondane».

Se le parole del segretario di Stato Vaticano sono confortanti, si può capire da dove nasce il «pessimismo» di molti cattolici cinesi, vescovi e non: dopo la campagna di abbattimento di migliaia di croci avvenute nel Zhejiang tra il 2013 e il 2015, nell’ultimo mese il partito comunista ha demolito due chiese, una cattolica e una evangelica, nelle province dello Shaanxi e dello Shanxi. Il presidente cinese Xi Jinping insiste da anni nel dire che «le religioni devono diventare cinesi», cioè «obbedire al partito». L’1 febbraio, inoltre, entrano in vigore i nuovi regolamenti per le religioni che vietano qualsiasi riunione di comunità religiose non ufficiali. I milioni di fedeli della comunità clandestina rischieranno arresto e multe astronomiche. Sarà vietato poi ogni tipo di proselitismo, mentre sarà autorizzato l’esproprio e il sequestro degli edifici e dei terreni su cui sorgono luoghi di culto considerati illegali.

Davanti a questi fatti, come si può avere fiducia nel futuro della Chiesa in Cina? Come dice il cardinale Parolin, «la fiducia non è frutto della forza della diplomazia o dei negoziati. La fiducia si fonda sul Signore che guida la storia». Vale la pena allora riprendere un altro passaggio dell’articolo del cardinale Zen: «La cosa importante per noi è di pregare per il Santo Padre, cantando il molto opportuno inno tradizionale “Oremus”: Oremus pro Pontifice nostro Francisco, Dominus conservet eum et vivificet eum et beatum faciat eum in terra et non tradat eum in animam inimicorum eius».

@LeoneGrotti

Tags: Benedetto XVIPapa Francescopietro parolinxi jinping
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