Che ne è dell’uomo se la democrazia “l’è morta”?
Primo indizio (o sintomo): Probabilmente sono possibili due diverse interpretazione di quanto affermato dal Presidente della Repubblica, in occasione dell’ultima “cerimonia del Ventaglio” («La libertà è condizione irrinunciabile ma chi limita oggi la nostra libertà è il virus non gli strumenti e le regole per sconfiggerlo»).
La prima mi sembra ben riassunta da quanto scritto da Davide D’Alessandro su Huffington Post il 27 luglio scorso, in risposta a Massimo Cacciari: «Com’è possibile esprimere preoccupazione per la vita democratica e non per la vita? La vita non viene forse prima della democrazia, non viene forse prima di tutto?».
La vita, la lotta contro il virus sono la priorità. La libertà, e la democrazia che ne è il limitato e imperfetto tentativo di concretizzarla nella vita pubblica si riconquistano solo sconfiggendo il virus. A qualunque costo.
La seconda considera la libertà come “condizione irrinunciabile” anche degli strumenti e delle regole necessari per sconfiggere il virus, come elemento “non negoziabile”, a partire dal quale pianificare la strategia e lottare. Libertà e responsabilità del singolo, la cui scelta contribuisce alla risposta, e non la impedisce.
Ho trovato larga testimonianza della prima interpretazione, e nessuna della seconda. Ne ricavo che in questo frangente storico, la libera e responsabile scelta del singolo, e il conseguente rispetto che il potere, nel suo dispiegarsi, deve avere di essa sono, nei fatti, largamente considerati ostacoli.
Senza entrare nel merito delle cause: mi limito a evidenziare l’assenza bipartisan della libertà di scelta, che ha sempre come corrispettivo la fiducia pubblica nella responsabilità di chi la esercita, come criterio di costruzione del bene comune. Mi limito a denunciarne la riduzione, il decadimento, la svalutazione a scelta autodeterminata (feticcio, o licenza, nell’accezione negativa del termine ) e a pretesa inopportuna / occasione di diserzione. Rilevo che il fenomeno si presenta in termini generalizzati e indiscutibili (per mancanza delle categorie atte a rendere possibile la discussione).
Secondo indizio (o sintomo)
«Chi non è vaccinato costituisce grave pericolo. Non è gradito in questa chiesa» (Da un cartello affisso sul portone di una chiesa del centro di una città del Nord Italia, sede episcopale).
Il contenuto della comunicazione ha più di un tratto dell’interdetto (inteso come pena canonica), e sembra essere comminato latae sententiae, per il solo fatto della commissione dell’illecito, senza bisogno di processo. Sembra che il diritto canonico, le sue forme e le sue garanzie non contino più un piffero. Probabilmente c’è un problema analogo con il diritto della comunità civile (soprattutto con le sue forme e garanzie).
Terzo indizio (o sintomo)
Non è infrequente in queste settimane imbattersi in interventi allarmati di economisti, imprenditori, osservatori sociali e politici rispetto ai rischi che una radicale “de – carbonizzazione” dell’industria italiana, prevista dalla politica industriale europea, possa portare alla scomparsa non solo di intere filiere industriali, ma addirittura allo stravolgimento del tessuto produttivo, professionale e quindi sociale e umano di ampie zone del paese. Spesso questi interventi finiscono in appelli accorati, a che si realizzino momenti di discussione partecipata tra le istanze politiche locali e nazionali, le parti sociali, i responsabili civili delle comunità, etc.
Appelli che mostrano una doppia impossibilità.
Da un lato la “politica”, locale o nazionale, al di là della sua cronica e incancrenita incapacità a risolvere vertenze industriali (Ilva, Alitalia, devo continuare?) palesemente e da decenni è stata spogliata di competenze in merito. Prima sostanzialmente, ora anche formalmente dal prevalere della normativa e della programmazione industriale europea. Il livello politico, scontata la sua incapacità storica, non esiste di fatto più. Si può evocarlo finché si vuole, ma è l’evocazione di uno spettro.
Dall’altro la dimensione sociale soffre anch’essa da decenni di una progressiva evanescenza sia nella presenza sia nella capacità di interpretazione, lettura dei problemi e dialogo rispetto ad essi. Nella migliore delle ipotesi qualcuno riesce a rappresentare efficacemente gli interessi di una parte, ma spesso mancano le condizioni essenziali per cui questa difesa di interessi possa incontrarsi con quella di eventuali controparti.
Gli appelli di oggi non trovano come prospettiva che la riesumazione del remoto passato delle “partecipazioni statali” o il vagheggiamento di forme di “democrazia partecipativa” dei territori (stile Porto Alegre anni ’90?). A fronte dei possibili scenari drammatici, paiono essere senza risposta plausibile: l’unica soluzione che viene prospettata sono i miliardi del Pnrr, finalizzati esattamente a produrre gli eventi all’origine degli appelli stessi.
Una prima diagnosi
Il già citato Davide D’Alessandro termina così il suo articolo di contestazione alla posizione di Giorgio Agamben e Massimo Cacciari su libertà, discriminazione e green pass: «Mi fa paura l’inconsistenza dei ragionamenti di chi, dopo oltre 128 mila morti, ancora si chiede che ne sarà della nostra amata democrazia». Ma forse c’è da aggiungere che chiedersi che ne sarà della nostra amata democrazia rischia sempre di più di essere una operazione fuori tempo massimo. Una preoccupazione anacronistica in merito all’esito di un evento già consumato. L’asserita inconsistenza del ragionamento potrebbe dipendere dal fatto che il tempo verbale da usare non sia il futuro (che ne sarà) ma il passato (che ne è stato, e che ne abbiamo fatto, della nostra amata democrazia).
Con una notazione fondamentale: tutto questo è accaduto prima del Covid. L’attuale situazione ci permette di rilevare il defedamento (irreversibile?) della democrazia per come ci è state insegnata, attraverso la sua mancata risposta culturale, politica, sociale, di pensiero a stress sempre più intensi. Attraverso l’evidenza della debolezza, irrilevanza o mancanza delle sue condizioni di esistenza e operatività laddove viene messa alla prova. Attenzione: non che non si stia rispondendo, all’emergenza. È che la democrazia non è ciò con cui si progetta e si costruisce la risposta. Questo, quantomeno, è il dubbio che non viene affrontato (e che sembra sia inaffrontabile, se non si vuole essere sbrigativamente etichettati come “no-qualcosa”…).
Esami
Come tutte le diagnosi, anche questa va verificata con ulteriori esami. In merito a cosa? Azzardo alcune direzioni di indagine:
1) la “non -pensabilità” della rilevanza strutturale e positiva delle libertà del singolo per la costruzione della democrazia (Scelta personale come diritto pubblico e non come licenza privata);
2) L’assenza/evanescenza di un livello di pensiero, di mediazione, di decisione e soluzione sulle grandi questioni che impattano l’umano che non sia esclusivamente di natura legale (rimangono solo Procure e Tribunali);
3) La consistenza dei diritti solo e sempre di più in prestazioni garantite e tendenzialmente gratuite da parte del sistema (dal “Bill of Rights” all’elenco dei LEP);
4) L’irrilevanza di tutte le forme di democrazia diretta in assenza di una struttura federale dei poteri pubblici (un conto sono i referendum “alla svizzera”, altro la Piattaforma Rousseau);
5) L’ esclusione di tutti i livelli di coscienza pubblica/ politica, diversi dalla partecipazione emotiva a qualche grande causa, dai luoghi in cui si svolge l’educazione di una persona.
Un ulteriore livello (sullo sfondo)
Che ne è dell’uomo se la democrazia “l’è morta”? Cosa diventa il cittadino se contemporaneamente vengono meno la dimensione della determinazione delle condizioni del vivere comune attraverso le proprie scelte personali e la reale efficacia delle forme della partecipazione istituzionale alla vita della collettività? Se il “cives” tramonta con il tramontare della democrazia, chi prenderà il suo posto?
Foto Ansa
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