
La preghiera del mattino
La chance da non perdere per fare le riforme istituzionali

Sulla Zuppa di Porro Lugi Bisignani scrive: «A questo proposito, la dicono lunga le parole del presidente Ignazio La Russa a un ministro durante una seduta fiume al Senato sulla riforma della giustizia: “Questo non è niente, deve vedere che succederà quando arriverà la riforma Calderoli”, il quale a sua volta, già si sente un martire minacciato dalle lobby. Chissà se a Giorgia risuonano le parole della canzone di Yves Montand pensando al suo settembre “le foglie morte si raccolgono insieme come i ricordi, come i dispiaceri e il vento del nord le porta nel freddo paese”».
Come spiega Bisignani l’affannata democrazia italiana è sempre a rischio di disgregazione. Perfino qualche più o meno felice battuta del convivente di Giorgia Meloni la scuote. E dunque uno scontro tra un Nord autonomista e un Sud che si sentisse abbandonato, potrebbe provocare sommovimenti politici profondi. Per evitare, sui temi di cui si scrive, effetti nefasti non basterà la prudenza, il buon senso, il pragmatismo. La questione meridionale e il dare al settentrione possibilità di scelte rapide e libere richiedono una visione che solo una rinnovata cultura politica può offrire, non basterà qualche misura tecnica, qualche slogan o qualche trovata propagandistica.
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Su Affari italiani si scrive: «Francesco Greco, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo. E altri 300. Un esercito di toghe in pensione protesta contro il ministro della Giustizia e la riforma della magistratura. Come riporta il Corriere della Sera, i magistrati hanno inviato una lettera al Guardasigilli, di cui il quotidiano milanese riporta ampi stralci: “Siamo magistrati in pensione civilisti e penalisti, giudici e pubblici ministeri, che sentono il bisogno di intervenire contro l’annunciata riforma della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri”».
È incredibile che Greco e i suoi, dopo il processo Eni, dopo quello a Davigo e più in generale dopo tutto quello che ha rivelato il caso Palamara, proseguano con un’opposizione ottusa alla sacrosanta divisione delle carriere, provvedimento che non mette in discussione l’intoccabile autonomia dei giudici, bensì un’organizzazione corporativa di una magistratura che ha finito per squilibrare i poteri costituzionali. Anche questa arroganza che qui denunciamo, rende più urgente un intervento riformatore. Che però, come è evidente, non avrà vita facile.
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Su Huffington Post Italia Ugo Magri scrive: «Un attimo prima che la politica andasse in vacanza, Matteo Renzi s’è confermato quel gran furbacchione: ha presentato una proposta di riforma costituzionale per eleggere il capo del governo tagliando corto con tutte le contorsioni su presidenzialismo, sfiducia costruttiva, cancellierato e l’intero campionario delle riforme di cui da decenni si parla senza concludere. Lo statista di Rignano immagina il futuro premier come un sindaco d’Italia che la gente voterebbe contestualmente ai membri del Parlamento, cosicché se questi lo facessero cadere andrebbero a casa anche loro, dunque ci penserebbero cento volte prima di tendere agguati al governo e la stabilità sarebbe aiutata».
L’esigenza di un governo autorevole in grado di affrontare le complesse questioni nazionali e uno scenario globale niente affatto tranquillo, sono evidenti. Ed è chiaro che esecutivi espressioni di coalizioni con scarsa leadership non sono di aiuto. La via del presidenzialismo è ardua, forse non adatta a una società così articolata come la nostra. Ci sarebbero altre soluzioni (la mia preferita è quella di collegi uninominali come in Gran Bretagna) ma Matteo Renzi indicando la via del premierato permette alla maggioranza di centrodestra di allargarsi, cosa indispensabile quando si tratta di riforme istituzionali. La via del premierato rende più difficile la formazione di grandi partiti che aiuterebbero la nostra nazione a darsi meditate e alternative visioni unitarie. Un difetto che forse si potrà rimediare successivamente anche mettendo mano al sistema elettorale. Si pone poi il problema giustamente sentito di una presidenza della Repubblica garante del rispetto della Costituzione. Magari come in Austria o in Portogallo questa figura potrebbe essere eletta direttamente, considerando anche la saggezza dei popoli che nel caso di Vienna e Lisbona hanno eletto presidenti di segno politico opposto ai premier, proprio per assicurarsi veri “garanti”.
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Su Linkiesta Francesco Cundari scrive: «Oggi siamo nel 2023, io ho compiuto ormai quarantacinque anni, ma sui giornali di ieri ho letto come fossi ancora al liceo l’intervista in cui Franco Bassanini spiegava le ragioni delle sue dimissioni dalla commissione incaricata di stabilire i Lep (livelli essenziali delle prestazioni) necessari per poter procedere con la riforma federalista (oggi si preferisce parlare di «autonomia regionale», forse per dare l’impressione che sia qualcosa di nuovo), insieme con altre autorevoli personalità come Giuliano Amato, Franco Gallo, Alessandro Pajno, in aperta polemica con l’attuale ministro per le Riforme istituzionali (già il fatto che da trent’anni esista un simile ministero dovrebbe dirci qualcosa, ma evidentemente non vogliamo sentire). Il ministro in questione, va da sé, è quello stesso Roberto Calderoli già ministro per le Riforme nella legislatura 2001-2006 (per la precisione dal 2004, subentrando a un altro esimio costituzionalista di nome Umberto Bossi), nonché autore della summenzionata riforma federalista bocciata dagli elettori ben sedici anni fa. Se adesso vi aspettate che vi dia il mio parere sulla decisione di dimettersi degli studiosi dimissionari o sulla riforma del ministro per le Riforme, evidentemente non mi sono spiegato, o forse siete proprio voi che non volete cogliere il punto. Questo gioco è cominciato quando avevo quindici anni, ora ne ho quarantacinque e il punto è proprio questo: che siamo sempre allo stesso punto. Possibile che io sia l’unico a trovarci qualcosa che non va? Davvero si può continuare a discutere di federalismo, devolution e autonomia regionale, e naturalmente anche di leggi elettorali maggioritarie all’americana, doppio turno alla francese e collegi uninominali all’inglese, e poi ancora di cancellierato alla tedesca, premierato forte, presidenzialismo o semipresidenzialismo, come se fosse tutto perfettamente normale, per oltre trent’anni filati?».
Che risposta dare alla nobile disperazione di Cundari? Per trovare soluzioni bisogna innanzi tutto analizzare con cura la complessità dei problemi che si vogliono risolvere. Innanzi tutto la crisi italiana iniziata nel 1992 non è una crisi politica bensì dello Stato: una Costituzione che nella parte ordinamentale (Quirinale, Palazzo Chigi, Parlamento, magistratura, sistema delle autonomie) funzionava grazie al contesto della Guerra fredda: quando finisce un’epoca, va in crisi. La risposta politica alla crisi dello Stato non è riuscita, nonostante qualche tentativo (il più organico la Bicamerale di Massimo D’Alema), ad affrontare i nodi cruciali della situazione. E così i politici eredi della Prima repubblica, pur falliti, hanno preferito difendere lo status quo che rinunciare alle loro rendite di posizione, mentre quelli extra Prima repubblica (missini, leghisti, Forza Italia) sbattendo contro il muro di un articolato establishment, hanno alla fine preferito vivere alla giornata e sfruttare la protesta piuttosto che cercare di far passare proposte di riforme organiche. Quando nonostante tutto grazie alla formazione del PdL e dell’Ulivo/Pd stava per formarsi un sistema politico più razionale, la crisi globale tra il 2008 e il 2011 ha spinto Francia e Germania con il consenso di Barack Obama (leggetevi le memorie di Nicolas Sarkozy) a commissariare, grazie a Giorgio Napolitano, l’Italia. Da qui la terribile spirale che ha portato nel 2018 un movimento di protesta senza proposte serie (i 5 stelle) al 32 per cento. Oggi si apre un nuovo scenario: sono fallite le strategie di Berlino (rapporti con Cina e Russia) e di Parigi (caos africano), la cosiddetta nuova lega anseatica (dall’Olanda ai Baltici) ha bisogno di sostegno nella contesa per controllare l’Artico, così l’Europa centrale (Varsavia in testa) per contrastare l’imperialismo grande russo. All’anglosfera serve un soggetto attivo nel Mediterraneo per giocare partite strategiche in Medio Oriente e Africa. Mentre l’area indopacifica (innanzitutto India, Giappone e Australia) puntano su un’Europa non filocinese. Tutto ciò dà una chance a Roma anche per fare le necessarie riforme istituzionali (autonomie territoriali, governo autorevole, magistratura). È solo una chance, ma almeno è una chance.
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