Cossutta e Cardini non credano di poter già cantare vittoria. Il paese guida del movimento di coloro che, a destra e a sinistra, militano per il divorzio fra Europa e Stati Uniti non cercatelo nella Germania di Schroeder. Nonostante i toni nazional-neutralisti che hanno caratterizzato l’ultima fase della campagna del rieletto cancelliere, e che con ogni probabilità sono stati la carta vincente del successo elettorale di strettissima misura della coalizione rosso-verde da lui guidata, l’incerta e appesantita Germania che esce dalle urne settembrine di tutto ha voglia tranne che di militare per una causa internazionalista. Nonostante si tratti della prima (lasciando da parte la Svezia) vittoria elettorale della sinistra in un paese del nocciolo duro della Ue dopo quelle della destra in Italia, Francia, Portogallo e Olanda, più che di un’inversione di tendenza portatrice di novità si dovrebbe parlare della consacrazione dell’odierna crisi europea al livello del più grande paese del continente. Germania ed Europa sembrano oggi specchiarsi l’una nell’altra, e non si tratta di una bella immagine: estraneità e mancanza di iniziativa rispetto alle crisi e ai pericoli mediorientali, perfetta assenza di un disegno geo-politico, totale mancanza di idee per contrastare la crisi economica, avanzata del neo-centralismo e del neo-statalismo a Bruxelles come a Berlino. Adesso questi connotati preoccupanti potrebbero diventare lo sfondo di una tendenza di lungo periodo. Sono queste le considerazioni che si possono desumere dal dialogo con due osservatori della realtà tedesca: Lucio Caracciolo direttore di Limes, la principale rivista di geopolitica italiana e Guido Horst, direttore del quotidiano di ispirazione cattolica Die Tagespost di Wuerzburg.
Ma quale nazional-neutralismo, è solo mal francese
Non crede che la Germania stia per entrare in un’era di nazionalneutralismo Lucio Caracciolo. «Non vedo sintomi seri di questo tipo, anche se non si può dire che la polemica di Schroeder circa l’intervento americano in Irak sia stata una presa di posizione di pura tattica elettorale. Essa esprime infatti un sentimento di fondo, maggioritario in Germania che non investe solo il campo della sinistra, contro quella che viene considerata un’avventura militare. Ma sono sicuro che né Schroeder, né Fischer, né alcun altro di questi vorrà mai portare il dissenso con la politica estera Usa oltre certi limiti. Io credo che la posizione tedesca diventerà col tempo molto simile a quella che ha avuto la Francia nell’Alleanza atlantica sin dai tempi di De Gaulle. Non uscirà dalla Nato (alleanza militare che, d’altra parte, vale sempre meno), ma su varie istanze segnalerà una posizione propria, autonoma». Anche per Guido Horst la rottura con gli Usa è spettacolare, ma niente affatto irreversibile: «Questo attacco di Schroeder a Bush è un episodio unico nei rapporti tedesco-americani. Forse una volta sola, più di 30 anni fa, il cancelliere Schmidt polemizzò con Carter con durezza paragonabile alla vicenda di oggi. Ma si tratta di un’eccezione. Le diplomazie sono al lavoro, soprattutto quella britannica, che sta mediando. Schroeder ha visto Blair, il ministro degli esteri Straw ha cercato di accelerare il riavvicinamento. Credo che non sarà una crisi irreparabile: Colin Powell ha già lanciato i primi segnali. Forse il problema più serio è il pessimo rapporto personale fra Schroeder e Bush, che si detestano. Per fortuna hanno almeno un amico in comune, Tony Blair: lui può riavvicinarli. Ma il problema più grosso in questo momento ce l’ha Bush: con la sua strategia Schroeder ha preso i voti e vinto le elezioni, Bush invece ha i suoi problemi con Francia, Germania e Congresso».
La rottura non sarà irreparabile, come sostengono tanti osservatori, ma non c’è dubbio che i rapporti fra tedeschi e americani non potranno più essere quelli di prima. «Non dimentichiamo –commenta Caracciolo- che sono passati 13 anni dalla caduta del Muro di Berlino e da quando Bush padre propose ai tedeschi un partenariato della leadership, quasi la prefigurazione di un rapporto speciale americano-tedesco che fosse sullo stesso livello, di quello con i britannici, se non addirittura destinato a scavalcarlo. Adesso Bush figlio non risponde alle telefonate del cancelliere tedesco, e questo segnala il peggioramento del clima. Non credo d’altra parte che la Germania voglia portare oltre questa sfida agli americani, ma certamente il clima non è più quello di un tempo. Certamente un rapporto schiacciato sull’America non è più possibile per la Germania di oggi». La Germania che ha rifiutato il bastone di proconsole che Washington le offriva («era una strategia americana per rafforzare la propria influenza in Germania e per poter contare su di un altro grande partner europeo che non fossero soltanto i britannici», aggiunge Caracciolo) può diventare leader di uno schieramento neutralista europeo? Può davvero mettersi a giocare in proprio nello scenario geopolitico? I no fioccano decisi. «La Germania –spiega Horst- è un paese che non ha ambizioni geopolitiche per definizione. Dopo la seconda guerra mondiale, nessun governo ha avuto progetti geopolitici. La riunificazione tedesca è stata un regalo piovuto dal cielo, non il frutto di un lavoro preparatorio da parte dei politici tedeschi. Certo, quello attuale è un governo di sinistra, dunque catalizza sentimenti antiamericani. Ma questo populismo antiamericano di Schroeder durante le elezioni adesso è finito, la Germania non fa politica estera da sola: continuerà a farla attraverso la Ue e la Nato, sempre tenendo un po’ le distanze rispetto agli Usa». Conferma Caracciolo: «La Germania non è in grado di capeggiare nessun tipo di coalizione europea per la semplice ragione che nessuno in Europa riconosce alla Germania questo titolo, mentre per poter capeggiare qualcuno ci vuole la sua disponibilità, il suo consenso. Non mi pare che né i francesi, né gli inglesi, e nemmeno gli italiani siano disposti a partecipare ad una coalizione europea guidata dalla Germania. In secondo luogo, il dualismo con la Francia non è superabile: la Francia ha una capacità militare superiore a quella tedesca, e non solo questo; benché inferiore alla Germania economicamente e demograficamente, la Francia ha un’idea di nazione e di potenza non assimilabile a quella tedesca. Ciò rende ancora più critico il problema tedesco, perché rischia di far assomigliare le nuove posizioni tedesche al “ruggito del topo”. Quello che comunque oggi manca in Germania è un chiaro progetto geopolitico sul futuro del paese, che riguardi sia i rapporti con l’America, sia soprattutto, ancora più importanti, i rapporti con l’Europa, cioè che tipo di Europa vuole promuovere la Germania».
Schroeder-Fischer, un altro Reich millenario?
L’altro interrogativo rilevante che corre di bocca in bocca riguarda la tenuta del nuovo governo, basato su di una maggioranza risicata, e le sue possibilità di fare per il rilancio dell’economia quel che non ha saputo fare nei quattro anni precedenti. Su entrambi i punti Horst non ha dubbi: il governo terrà di sicuro, l’economia continuerà a stagnare. Il margine ridottissimo di maggioranza non è un handicap ma, paradossalmente, un punto di forza: «Stoiber ha detto: “questo governo avrà vita breve”, ma è soltanto un suo desiderio, non è la realtà prevedibile. Al contrario, la maggioranza Spd-Verdi in Parlamento è piccola, 11 seggi, ma è stabile. Durerà sicuramente 4 anni, ma probabilmente di più. I 16 anni di Kohl iniziarono così: salì al potere dopo un’elezione molto combattuta, e poi ci rimase 16 anni. Credo che queste elezioni saranno una svolta: quattro anni fa gli elettori hanno soprattutto voluto mettere fine al regno di Helmut Kohl, adesso invece hanno votato consapevolmente per Schroeder, che può durare molti anni, 8 o 12». Le ragioni starebbero nella solidità della coalizione: «Prima delle elezioni Schroeder e Fischer hanno fatto una grande assemblea comune – era la prima volta che due partiti in Germania organizzavano un’assemblea congiunta prima delle elezioni. Non sono più due partiti, ma quasi un partito solo, il partito moderno della Germania. Non vedo nessuno che possa opporsi a questa specie di federazione fra i due partiti, sul modello di quella fra Cdu e Csu: né nel partito dei Verdi, né nella Spd, con la sola eccezione di Oskar La Fontaine, che però è fuori dai giochi da quattro anni. L’unica alternativa sarebbe una grande coalizione fra Spd e Cdu, ma questo non lo vuole neanche Stoiber; oppure una coalizione fra Cdu e Verdi, ma è un progetto per il futuro lontano». Oltre a questo, le ragioni di un prevedibile lungo regno di Schroeder e Fischer stanno nella debolezza dell’opposizione e nel processo di disgregazione del Pds, il partito neo-comunista. «Penso che queste elezioni hanno rappresentato il punto più alto dei democristiani e di Stoiber, adesso possono solo scendere. Stoiber torna ad essere il presidente della Baviera, e a livello nazionale la sua carriera è finita, il leader del partito torna ad essere Angela Merkel, una democristiana non-democristiana: viene dall’Est e non sa molto delle tradizioni della Bundesrepublik. Per i democristiani comincia un tempo difficile: non ci sono leader naturali. A Berlino c’è la Merkel e basta; c’è Schauble, ma è una figura priva di carisma. Ci sono alcune personalità forti nei laender: Roland Koch in Assia, Christian Wulff in Bassa Sassonia, poi niente altro». Quanto al Pds, filiazione del partito comunista che aveva retto la Ddr per quarant’anni, «è un partito giunto alla fine della sua corsa, e a beneficiarne è soprattutto la Spd. E’ diventato un partito di protesta regionale, sul territorio dell’ex Germania est, ma a livello nazionale è finito». Precisa Caracciolo: «I neo-comunisti sono usciti male da questo voto, hanno perso il loro leader carismatico Gysy. C’è un fenomeno di erosione del voto comunista all’est specialmente verso la socialdemocrazia, che potrebbe avere delle conseguenze politiche notevoli, e far diventare la Spd in prospettiva il partito di tutta la sinistra. Questo credo che sia anche il progetto di Schroeder: assorbire l’assorbibile dalla Pds e portarla dentro il suo partito per rinsanguarlo e farlo diventare il partito che eredita le istanze della Pds nell’ex Germania orientale. E’ un progetto di medio termine che comincia a strutturarsi in questi mesi».
Nessuna idea per uscire dalla recessione
Il capitolo più grigio del nuovo corso tedesco sembra, infine, essere l’economia. I deficitari risultati degli ultimi anni (4 milioni e 250 mila disoccupati ufficiali, ma in realtà fra i 5 e i 6 milioni; deficit pubblico vicino al 3% del Pil, crollo dei consumi del 4%) sembrano destinati alla conferma. «In questo momento, -spiega Horst- tutti si stanno chiedendo quanto aumenteranno le tasse. Devono aumentare per forza, perché mancano i soldi, e in Germania è lo Stato che fa tutto: educazione, università, sanità, pensioni, ecc. Ci sarà sempre più statalismo, proseguendo l’orientamento che si è manifestato nei primi quattro anni di governo della coalizione rosso-verde. Nell’università verranno realizzati tutti i progetti pensati nel Sessantotto. Stiamo passando dal tradizionale sistema federale tedesco all’estensione del potere di Berlino alla periferia. Già nell’altra legislatura è stato introdotto un ministero nazionale della cultura: prima era una materia riservata ai Laender». Prevedibilmente resteranno centralizzati il collocamento e gli altri servizi per il lavoro, e perciò resterà rigido il mercato del lavoro. «Schroeder e Fischer sperano in una ripresa economica, che renderebbe le prospettive meno cupe. Ma per adesso tutti parlano delle tasse, perché la situazione finanziaria è catastrofica. Il futuro è un po’ nero, perché, diversamente dai democristiani, non hanno progetti per la liberalizzazione del mercato. Le Pmi (Piccole e medie imprese) sono il settore dell’economia con i più alti tassi di disoccupazione. Sarebbe stato importante fare qualcosa per loro, e invece le nuove tasse peggioreranno la loro loro posizione. Schroeder è l’uomo delle grandi industrie: per la Volkswagen e per le imprese con tanti addetti si mobilita, ma per i piccoli imprenditori no, non fa niente».