«Mi siedo un attimo». E non mi sono più rialzata. Messa del giovedì santo di sei anni fa. E tanta panza, ripiena della primogenita.
Torno a casa appoggiata – meglio: abbarbicata – al braccio del marito e penso: “Ci siamo”, ma non c’eravamo ancora.
Il giorno dopo, niente. Il sabato mattina, quindi, autorizzati a bollare l’episodio del giovedì come “falso allarme”, andiamo tutti tranquilli a fare la spesa, perché l’indomani, a Pasqua, sarebbero venuti i miei a pranzo (di solito andiamo noi da loro, ma quest’anno sono proprio vicina alla “Data Presunta del Parto”, quindi). «Ricordati che dopo il supermercato dobbiamo passare dall’ospedale: il ginecologo mi visita velocemente perché l’ultima volta ha sentito il battito della bimba un po’ irregolare», butto là distrattamente al marito in macchina.
In ospedale, con una certa fretta perché il soffritto e la cipolla surgelati mi si scongelavano in macchina, il ginecologo, facendo pattinare il “microfono” dell’ecografia sulla mia pancia sporca di gel (perennemente ghiacciato, ahi) butta là qualcos’altro: «Meglio se te la faccio nascere oggi, il battito non mi convince. Tanto tu sei pronta, lei è pronta».
Ah. Cavoli, me l’ero proprio immaginato diverso. Niente sorpresa, niente corsa in macchina all’ospedale (il top, cinematograficamente parlando, sarebbe stato in taxi). E invece sapevo il giorno e quasi l’ora in cui sarebbe nata. E con largo anticipo. Un po’ perplessi per questa inversione di rotta della trama, io e il marito ci guardiamo attoniti, impreparati, come di fronte a una fiction mal confezionata col suo colpo di scena non gradito, cui di solito segue sua espressione: «Vabbè, io vado a dormire», rotolando giù dal divano.
L’ossitocina, un simpatico ormone che provoca contrazioni e di cui ho una flebo attaccata al braccio, dà un’accelerata alla vicenda, un po’ di pepe, diciamo; così come la rottura del sacco amniotico e lo scollamento delle membrane ad opera delle manone del ginecologo (momenti che riserverei solo a chi non mi restituisce un dvd prestato di Woody Allen, aggravati dall’infrangersi di un’altra “favola”, quella della rottura delle acque scenografica e drammatica, che so, nella corsia di un supermercato sotto lo sguardo partecipe di tutti i presenti).
Qualche ora e graffio sull’avambraccio del marito dopo; dopo i primi dodici minuti del nuovo giorno, dopo quel lungo, strano sabato, è arrivata.
Domenica mattina. Mi siedo un po’ a fatica al tavolino della mia camera con la mia compagna di stanza (subito, nella mia mente malata, si affollano paragoni arditi: anche Madonna per un po’ non si è seduta dopo Lourdes Maria? Sofia Coppola chiedeva all’infermiera i super-maxi-pannoloni, che di solito associ a delle signore più agées, dopo Romy?). Ci portano il pranzo. “Buono”, penso, “per essere dell’ospedale”. Persino il dolce. Una mini colomba. Realizzo che è Pasqua.
Realizzo anche qualcos’altro, sproporzionato rispetto alla vestaglietta (di sicuro questa Madonna non ce l’aveva) e al mollettone in testa; che dopo mesi in cui ho atteso qualcuno a cui pensavo avrei dovuto dare (dare cibo, dare attenzione, provvedere al suo sonno, alla sua salute), è arrivato qualcuno che invece ha dato a me. Mi ha dato, arrivando, sé, innanzitutto. E questo contraccolpo non l’avevo calcolato. Poi, mi ha dato la consapevolezza – che è insieme una sorpresa, anzi, una rivelazione – che lei, in un certo senso, non ha bisogno di me. È già una persona, anche senza il mio latte, le mie braccia. E questo invece di inquietarmi mi rimette al mio posto: non devo fare tutto io. Ci ha già pensato Qualcun altro a farla (scusate la “Q” maiuscola, non è da me darmi arie bibliche). E a spedirmela. Presumibilmente lo stesso autore della sottoscritta.
Ho l’assurda sensazione, tanto è adulto, saziante ciò che mi dà, che sia lei la madre. Ho l’assurda sensazione di aver sperimentato col mio primo parto la più profonda esperienza di essere figli della mia vita.
Che strana Pasqua, la Pasqua di sei anni fa.