Nell’anticamera della canonica di una chiesa di Niguarda, mentre le tende da sole verdi oscillano pigramente sulla finestra aperta nella calura d’agosto, sento un rumore leggero, cui dapprima non faccio caso. Sto pensando ad altro, ma quel rumore tenue si fa largo, si impone alla attenzione. È un ticchettio secco, discontinuo, ora lento ora veloce. Come colpi di becco su un tronco di un picchio disordinato. Cos’è? Mi domando ora, stupita. Non sarà? …Possibile?
Sono vent’anni che non sento il battito di una macchina da scrivere. Credevo che nessuno le usasse più. «Ma non stava, vero, battendo a macchina?» domando meravigliata, non appena la porta dello studio del parroco si apre. Quello annuisce, come se non ci fosse nulla di strano. Solo il mio amico prete di Niguarda – un conservatore per non dire un franco reazionario – talmente si oppone al progresso che non ha un pc; e per compilare i documenti per il matrimonio dei parrocchiani usa ancora la macchina da scrivere.
Ma che scarica di emozione ha risvegliato, nell’anticamera afosa, quel tic tic disordinato, ora tachicardico ora lento. Il ricordo risale vigoroso, contromano nella corrente del tempo: quel ticchettio – più veloce, più nervoso, ben abituato a navigare sulla tastiera – era il rumore di mio padre, inviato di guerra, nei giorni in cui era a casa e non invece altrove, lontano. La sua stanza buia, con le tapparelle abbassate e una coltre densa di fumo; Nazionali “senza”, pacchetto verde con la caravella sopra. E, se mi affacciavo in quella nebbia acre, l’aureola di luce attorno alla lampada sulla scrivania, e lui chino sulla Olivetti Lettera 32, intento, che non sentiva il mio passo di bambina; e il crepitio dei tasti come una raffica, ritmato dal crac metallico della leva che avanzava la carta sul rullo.
Quanto mi è rimasto addosso quel ticchettio alacre, come di un fabbro intento a cesellare il metallo. Ma nuotano ancora i ricordi: ora vedo una grande sala grigia, con scrivanie metalliche e grosse vecchie macchine da scrivere sui tavoli. Anche qui un odore denso di fumo; anche qui quel rumore di fabbrica in attività, quando alla Notte, quotidiano della sera di Milano, si avvicinava l’ora della chiusura. Ticchettio che si faceva frenetico nell’ora di un omicidio, o di un attentato; e tutti allora si buttavano sulle macchine da scrivere a battere scarne storie: nomi, età, e poco altro, oltre a una data di nascita, e a una di morte. Alla fine le macchine parevano fumanti come revolver di vecchi film western; mentre già in tipografia si componevano i titoli cubitali che i milanesi avrebbero letto sul tram, la sera. Poi, all’alba del giorno dopo le macchine da scrivere apparivano inceppate, i nastri consumati, la carta impigliata nel rullo; e noi le si sistemava, macchiandoci le dita di un inchiostro violaceo che non veniva via. Com’erano ferrose, rozze, carnali le vecchie macchine. E le parole? Non erano anche quelle più dense, più pesanti, così impresse a forza sulla carta? Lo schermo del pc mentre scrivo silenzioso mi fissa, algido e azzurrino.