Tratto dal numero 29/2012 di Tempi
Luglio, Val Pusteria. Verrei fino a quassù soltanto per vedere gli orti. Gli orti dei piccoli paesi dell’Alto Adige, come questo, attaccato alle mura candide di una vecchia canonica di paese. Un bell’orto largo, con le fila di verdura diritte e ordinate; già, nel loro disciplinato schierarsi, germaniche. Ma splendidamente mediterraneo il rosso delle rose che si arrampicano sulla staccionata di legno; e che profumo hanno. Si sporgono tra le sbarre del recinto come collegiali dalle finestre di un convento, ansiose di sole.
Verrei fino a quassù soltanto per fermarmi una volta ancora davanti a un orto come questo; e appoggiare i gomiti alla ringhiera di legno ruvido, e affondare lo sguardo in questo grembo fecondo di terra nera. Con il cuore in bilico fra l’invidia per il parroco che al mattino, dalla finestra, si affaccia su una tale meraviglia, e una femminile ammirazione per la sua perpetua, che è capace di fare germogliare la terra così. Dev’essere, la perpetua, una donna saggia; un’anima concreta che prima di tutto sa che occorre mangiare. E quindi la gran parte dell’orto è una geometria attenta di insalate, radicchi e lattughe; in un angolo i gonfi, generosi cavolfiori – di quelli in cui un tempo si trovavano i bambini; e bietole, e erba cipollina, e zucchine, in una generosa abbondanza.
Poi, io che vengo da Milano non so il nome di quelle grosse foglie turgide che si allargano al sole, né dei fiori alti – gladioli, forse? – di un profondo blu pervinca, appena ai margini della foresta di insalata. Perché la signora della canonica sa, certo, che la concretezza più grande è la bellezza; è la meraviglia di un blu sgargiante che cattura chi, distratto, passa di qui, e lo costringe a fermarsi. Sfiorato da una domanda sottovoce: ma davvero questa meraviglia può venire da un primordiale casuale incrociarsi di geni?
L’architettura dei gladioli, a ben guardarla in un orto di montagna, intimorisce. Così come mi rende assorta questa infinita gamma di verdi, da quello chiaro della lattuga neonata al cupo smeraldo del cespuglio di cui, naturalmente, non so il nome. (Che strana cosa però sarebbe stata questa sinfonia di verdi, se non fossero nati degli uomini, a guardarli). Le rose, poi; le rose sono le più misteriose, con quel loro velluto che sembra chiuso a nascondere, in fondo, un tesoro. Queste, di un rosso arancio, ebbre di sole, somigliano a labbra carnose di giovani donne. Quelle chiare, quasi bianche, invece sono ancora chiuse, in un pudore monacale. Come rapiti ronzano attorno i calabroni, poi se ne vanno, arresi: quelle bianche, sono rose da altare. E l’alacre andirivieni di api, veloci, frenetiche, come sapessero quanto breve è, quassù, l’estate. La silenziosa fatica, sulla terra nera, di colonne di piccolissime formiche, che solo al tramonto si fermeranno – per quale antico ordine? Quante domande pone sommessamente, a bassa voce, un orto di montagna. Verrei fino a quassù solo per appoggiarmi alla staccionata; zitta, attenta, a guardare.