Oggi sulla prima pagina del Corriere della Sera è apparso un interessante editoriale di Ernesto Galli della Loggia (“La violenza e noi europei smarriti”) che prende di petto i riti consolatori e le mistificazioni che sono state messe in campo dopo la strage di Parigi. Se ci illudiamo di pensare che il jihadismo è solo un «attacco al nostro modo di vivere», dice Galli della Loggia, e se il nostro impegno si riduce al roboante «non ci farete cambiare le nostre abitudini», non riusciremo mai a comprendere la sfida che ci si pone innanzi.
ISLAMOFOBIA. «In realtà – scrive – l’intera rappresentazione mediatica di quanto è accaduto e sta accadendo in Francia e altrove sembra avere soprattutto una funzione più o meno consapevolmente esorcistica del nostro smarrimento, di noi europei occidentali, di fronte a quello che è diventato per noi l’enigma della violenza. La nostra estraneità alla violenza – non a quella che, camuffata in mille modi, esiste pure da noi, bensì alla violenza in quanto uso della forza volontariamente accolto da una cultura nei suoi valori – è ormai tale che non riusciamo neppure a immaginare una società, una religione, che una simile estraneità non la condividano. Che non siano istituzionalmente favorevoli sempre e comunque alla “pace”. Il solo pensare che invece esistano lo consideriamo, già in quanto tale, un fatto di violenza. Supporre o suggerire, ad esempio, che su questo punto cruciale della violenza le società islamiche non abbiano la nostra stessa sensibilità, anzi ne abbiano una assai diversa, viene stigmatizzato, già solo questo, come l’anticamera dell’”islamofobia”».
I BUONI E I CATTIVI. Il problema, conclude Galli della Loggia, è che «siamo, vogliamo sentirci, così “buoni”, che non riusciamo a credere che qualcuno nel mondo possa invece considerarci “cattivi”. Fino al punto che ce la voglia far pagare ricorrendo a quella cosa che si chiama guerra: una cosa che al mainstream del pensiero che si dice democratico appare talmente inconcepibile da essere sottoposta, almeno qui in Italia, a un vero e proprio tabù semantico. Da noi la parola “guerra”, come ha capito benissimo il nostro presidente del Consiglio, è diventata una parola impronunciabile. E se no del resto come potremmo sentirci così buoni? Ma perché di guerra si tratti non è necessario essere in due. Basta che uno decida di spararti addosso. Certo, non è detto che ogni colpo di fucile debba rappresentare di per sé l’inizio di una guerra. Ammettiamo però che qualche migliaia di colpi e centotrenta morti possono far sorgere qualche ragionevole sospetto».
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