Mi costituisco: sono juventino. Di quelli che pensano che gli scudetti siano 30 e che Luciano Moggi meriterebbe un busto in bronzo in corso Galileo Ferraris. Esserlo a Roma è come avere una malattia mortale e contagiosa. Significa passare il tempo a discutere “der go’ de Turone” o sentire frasi tipo “Ao’ ce stava più ggente a Fiumicino quanno è arivato Cicinho che a Torino a festeggià lo scudetto”. Uno pensa di essere una mosca bianca. Poi scopre Mario Adinolfi, juventino e romano di Testaccio, quartiere per eccellenza del tifo giallorosso. Vabbé, si dice, ma Adinolfi è un provocatore. E torna a vivere la sua solitudine.
Poi si alza una mattina di maggio, presto. Obiettivo: comprare due biglietti per la finale di Coppa Italia, Juve-Napoli. Chi vuoi che ci sia. Ma davanti all’agenzia la sorpresa. Magliette e sciarpe bianconere. C’è anche un lettore di Tuttosport, che nella città in cui chiedi il Corriere e devi specificare “della Sera”, fa quasi commuovere. L’amico romanista ha la spiegazione pronta: “So’ tutti calabresi’. Perché chi ha avuto la fortuna di nascere nella Capitale non può neanche prendere in considerazione una squadra di calcio che non sia “gialla come il sole” e “rosso come er core mio”. Al massimo può virare verso la “stella” che brilla nel cielo biancoazzurro. Ma l’accusa è pronta: burino.
Poi, dopo qualche minuto, quando i dialetti dei presenti sembrano lasciare poco spazio alla speranza, la rivelazione. Un uomo sulla cinquantina, accento romano, guarda tutti negli occhi e consegna ai presenti ala sua perla di verità: “State attenti a dove passate pe’ annà allo stadio. M’hanno detto che li romanisti se stanno a organizza pe’ mennacce, a noi e a li napoletani”.
Eccolo qua, “er complotto”. Perché a Roma, la città dei palazzi della politica, niente è mai come sembra. C’è sempre una verità più vera di altre. Una cosa sentita, riferita, n’amico de n’amico che ne sa più degli altri. Prima di essere giallorosso o bianconero, il romano è romano.