Pubblichiamo l’articolo di Marina Corradi apparso sul numero 43/2011 di Tempi.
Quando in auto passo da viale della Liberazione sempre, ogni volta, alzo lo sguardo al tetto del palazzo d’angolo su piazza San Gioacchino. Una casa di dieci piani, anonima, costruita in fretta negli anni Cinquanta sulle macerie della guerra, in faccia a quella che era la stazione delle Varesine. Ora davanti sono appena venuti su dei palazzi molto più alti, arditi, lucenti. La mia casa di bambina se ne è rimasta lì, dignitosa, grigia. All’undicesimo piano, sul tetto, c’è il terrazzo condominiale, disabitata distesa di antenne e ringhiere affacciata sui cortili di un quartiere borghese di Milano. Saranno quarant’anni che non torno lassù. Ci andavo con mia madre, a stendere il bucato. C’erano, sotto alla selva di antenne arrugginite, dei lunghi fili tesi. Io, piccola, mi chinavo sul catino e porgevo a mia madre la biancheria fradicia, ancora odorosa di candeggina. Goffamente con le mie dita corte la aiutavo a piegare le lenzuola matrimoniali (con che precisione e grazia invece lei maneggiava le cose, che immediatamente dalle sue mani uscivano ricomposte, ordinate). Il suo profilo fine visto dal basso, stagliato contro il cielo mentre con le mollette fermava la biancheria. Era maggio, o giugno: caldo che scottava le guance, luce accecante, le lenzuola in un’ora asciutte, profumate di sole.
Da quel terrazzo si sovrastava la città come in un volo di falco; tutto, sotto, appariva così piccolo e irreale. Io mi aggrappavo alle sbarre delle ringhiere, più alte di me, a sostenermi, in un soffio di vertigine: terribile eppure attraente, il vuoto. Sui cornicioni contemplavo i colombi con i loro piccoli occhi fissi, indifferenti, che senza paura si buttavano e spiccavano il volo. Con lo sguardo inseguivo anche i fili delle antenne, neri di smog, che scendevano giù, verso gli appartamenti, dinoccolati come serpi magre; misterioso davvero, mi dicevo, come le facce del telegiornale potessero passare per quei fili sottili. Dalle cabine degli ascensori i motori scattavano e ronzavano: sorda eco della vita quotidiana sotto di noi. Vita che, da lassù, sembrava così remota. Ma a tratti sussultavo per un rumore diverso: il cigolio ferrigno di un segnavento, sagoma nera, vagamente umana, che a ogni folata ruotava. Come un uomo nero che dall’alto si voltava proprio verso di me, a fissarmi. Allora colta dal panico di corsa tornavo da mia madre.
C’è ancora, l’uomo nero in cima alla mia vecchia casa? Dal basso non si riesce a vederlo. Lo immagino lassù, uguale, imperturbabile. E immagino una domestica in grembiule azzurro che come allora si affaccia da un balcone di servizio, scuote uno straccio, annaffia un geranio pallido. Clang, l’uomo nero si volta proprio verso di lei. La donna non s’accorge e rientra in casa, affaccendata. (Andarsene bisogna, pensavo, fissando i miei piedi come incapaci di muoversi: andarsene, prima che l’uomo nero si volti a guardare me).
Ma forse, mi dico mentre scatta il verde e vado, lassù ora vedrei semplicemente ringhiere e cemento. Ciò che rende il mondo straordinario, è lo sguardo di un bambino.