Pubblichiamo la rubrica di Marina Corradi contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Milano, febbraio. «E mi raccomando, signora, appena può faccia dello sport». Era inevitabile, convalescente e quasi immobile come sono da oltre un mese, che il dottore me lo dicesse. È da tutta la vita, d’altronde, che mi dicono che devo fare sport.
Da ragazza, io ci ho volonterosamente provato. A cominciare dalla pallacanestro. Solo che ero, a dodici anni, esile e ancora piccola di statura, e le mie compagne tutte più alte e forti di me. Quando mi ritrovavo con la palla fra le mani, in un istante arrivavano due avversarie grandi e grosse, e giù botte finché non mollavo la preda. Di modo che sviluppai un riflesso pavloviano: come toccavo la palla, cercavo di disfarmene. Semplice istinto di conservazione. Con la pallavolo fu un fallimento, da cui mi derivò una generica avversione a inseguire qualsiasi tipo di palla, o pallina.
Tentai lo sci, ma la neve e il gelo e il ghiaccio mi immalinconivano, e mi irrigidivo sui pendii, mentre il maestro mi insultava. Poi ci pensò il mio futuro marito, a portarmi in cima a una pista nera ghiacciata, in una memorabile domenica. Venni giù rotolando e imprecando, e arrivata alla stazione dello skilift, furiosa, gli annunciai che lo lasciavo. Dopo lo perdonai e lo sposai, però sugli sci non ho più rimesso piede.
La vela, anche, che mi pareva uno sport così poetico, mi attrasse, fino a quando in una virata il boma con la forza di una mazza da baseball non mi sfiorò la testa, rischiando di ammazzarmi, e capii che anche per la vela non ero portata.
Tentai con l’equitazione: i cavalli mi piacevano. Purtroppo, io non piacevo a loro. Come montavo in sella il cavallo dava segni di avversione alla mia presenza, sussultava, scuoteva la groppa; poi, seccato, decideva di ignorare del tutto i miei comandi. I cavalli degli altri allievi trottavano, il mio brucava l’erba, oppure partiva al galoppo cercando di disarcionarmi. Smisi, dunque, per incompatibilità di carattere con i cavalli.
Che cosa resta? Nuotare mi piace, ma solo nel mare e per i fatti miei, e camminare, anche, meglio in montagna, purché non mi si stressi con misuratori di passi o altri marchingegni. Vedo per Milano un proliferare di fitness club, in cui la gente ansima sulle cyclette e i tapis roulant. So che sono felici, anche se a me paiono dei forzati.
Insomma, lo sport è, certamente, una cosa meravigliosa, ma io no, dottore, io non sono proprio portata. Inoltre penso che i miei nonni, senza sport ma andando a piedi e mangiando meno, vivevano benissimo. Passo per strada davanti alle vetrine delle palestre con i clienti paonazzi e il respiro affannoso, e sorrido lieta. Se diventerò vecchia, penso, alla mia morte voglio un epitaffio sulla mia tomba: «È arrivata a ottant’anni, e non ha mai fatto alcuno sport».
Foto scarpe da ginnastica da Shutterstock