Alle otto di una domenica mattina il tintinnio di un sms. Afferri il cellulare con un’ombra d’ansia: un messaggio così presto, e di domenica? Dice: «Alle cinque e mezza di questa notte è nata Agnese». Posi il telefono sul comodino, sorridi. La figlia di due amici; e che bel nome, antico. Nata alle cinque e mezza; in questa stagione, l’ora dell’ultimo allungarsi della notte, che si arrende e fa largo alla prima luce dell’alba. Chissà perché tanti bambini – mi disse una volta un’ostetrica – nascono in quell’ora in cui la città attorno è silenziosa, rincasati gli ultimi nottambuli, appena in piedi i più mattinieri mentre sulle facciate dei palazzi si disegnano rare finestre illuminate?
Anche il mio primo figlio è nato all’alba. Fanno vent’anni fra pochi giorni; e mi sorprende questa mattina la lucida nettezza del ricordo di quel giorno. Quando, attraversata una interminabile notte, lui finalmente è nato. Me l’hanno messo in braccio, piccolo, bagnato, gli occhi spalancati e stupefatti. I nostri sguardi si sono incrociati, e so che i miei occhi erano altrettanto sbalorditi. Da dove vieni tu, che nove mesi fa non c’eri? Quelle piccole mani, e nel petto il battere veloce, tumultuoso, del cuore. Da dove vieni tu, che non c’eri?
Lo stupore nella memoria ha ancora il colore della luce incerta, azzurrina, di un’alba di settembre. Da fuori l’eco attutita dei rumori della città che si andava svegliando; il primo autobus, il brontolio di digestione metallica del camion delle immondizie; poi una campana, lontano. Tutto uguale ad ogni altra mattina; ma quale novità aveva fatto irruzione nella mia vita, fra i muri bianchi di un vecchio ospedale. Un orologio in sala parto diceva: le sei e venti. Il pallore del giorno che fuori avanzava e, finita la notte, disegnava di nuovo certi confini alle case e alle strade. Chissà perché tanti bambini nascono all’alba?
Forse perché, germogliati nel buio, cresciuti nell’ombra, tendono visceralmente alla luce; come i fiumi al mare. In una vocazione inesorabile. L’alba che sale, pallida, chiama a sé i nascituri con la forza muta di un’alta marea. Nascere, oramai, bisogna. Il primo pianto lacera la luce diafana; e chi ascolta sente in sé l’allargarsi di una commozione che sale dal profondo. È l’affacciarsi, in questo vecchio mondo dolorante e zoppo, di un altro figlio – nel quale una volta ancora quel vecchio mondo rinasce. E ora Agnese mi sembra di vederla: dorme in una culla nella nursery, sfinita dello straordinario viaggio. Dormono accanto, nelle culle in fila, altri come lei – appena atterrati. E il giorno ora si alza pieno, e colma l’ospedale e la città di voci e rumori abituali. Una domenica come tante altre. Ormai invisibile quell’aura indaco, esitante, dell’alba; l’ora in cui i bambini preferiscono nascere, portati al mondo da una corrente segreta.
37/2012