Tratto dal n.5/2012 di Tempi
Di nuovo i saldi. Ancora una volta mia figlia mi porterà in centro e mi trascinerà come un ostaggio da un negozio all’altro. Non esiste modo per sottrarsi. Lei è un fuoco d’artificio di giovanile vanità; le vetrine, la stregano. È instancabile, con le sue gambe quattordicenni. Mi sequestra e mi porta con sé, io complice e vittima. Cedo, a patto di portare anche il cane: la sua silenziosa presenza mi conforta. Mi sbalordisce sempre la quantità di merce rutilante dalle vetrine, in questi giorni; mi chiedo chi mai comprerà tutta questa roba. Per esempio in questo grande negozio osservo smarrita le pile di jeans, jeans, jeans, e maglioni, maglioni all’infinito, tutto a prezzi stracciati. Mi sento sommersa dalla roba, schiacciata. E questo rock a volume insopportabile? Martella, mi percuote, mi stordisce. La figlia, imperturbabile, esamina meticolosa le magliette. Non ti dà fastidio questa musica?, le urlo in un orecchio, ma lei non sente nemmeno. Sospiro. Mi tolgo il cappotto. Sto sudando. Qui dentro ci saranno 40 gradi. Ma Pisapia, gemo, non aveva ordinato di abbassare il riscaldamento nei negozi? «Visto che hai già tolto il cappotto perché non ti provi questo, mamma?», indica la figlia, che cerca di irretirmi nella sua frenesia. Supinamente ubbidisco, faccio la coda, provo, già sfiduciata.
Sembro la befana dentro quella cappa antracite. Nervosamente mi rivesto. Dai camerini accanto colgo sospiri, scalpiccii, urla impazienti di mogli ai mariti: portami una taglia in più, hai capito? È un sabba, mi dico, e noi sembriamo dei dannati, qui in coda con le braccia cariche di maglie, frenetici, stanchi. La figlia si sta provando sei cose assieme. Se ne esce sbuffando, contrariata. Guadagniamo l’uscita, io e il cane aspiriamo avidi l’aria fresca. Andiamo a casa?, domando speranzosa. Lei non risponde. Un negozio più grande ancora. Roba, roba, piramidi di roba. Lei ravana furiosamente a cercare la sua taglia. Non c’è. Si stizzisce. Adocchia delle ballerine. Le ribalta tutte cercando il 38. Io mi adagio su una panca per madri sfinite; anche il cane si sdraia per terra. «Non sono male, però, tu cosa ne dici?», domanda la figlia passando e ripassando ansiosa davanti allo specchio. (Che devo dire? Del resto, qualsiasi cosa io dica è irrilevante). «Ma poi, con cosa le metto?», insiste la figlia. Io e il cane ci guardiamo, desolati. Finalmente, lei decide. Alla cassa, clienti in coda come profughi. Mezz’ora. Ma pensa, cinguetta la figlia entusiasta all’uscita, nove euro per delle ballerine.
E marcia verso il prossimo negozio. No, Zara no, mi impunto come un mulo sull’ingresso. Dài mamma, andiamo, mi trascina la figlia, come fossi un bambino recalcitrante. Quattro negozi dopo, io stravolta, il cane a coda bassa, imploro: ci porti a casa? E finalmente andiamo. Perché, mi chiedo, mi lascio strapazzare in giro da lei quando odio i saldi, l’affollamento, il casino? Perché, perché. Perché lei è la vita in persona, e con lei tutto sembra nuovo, tutto sembra un gioco. E lei cresce, e non mi porterà con sé per sempre. Inseguo il suo passo agile e i suoi lunghi capelli in corso Vittorio Emanuele, per saldi; inseguo e bevo, incantata, la sua inesauribile letizia.