Tratto dal n.11/2012 di Tempi
Brutta giornata. Combinato niente. Testa che gira a vuoto. Il pensiero fisso a una stanza d’ospedale. A casa, i figli sono silenziosi. Ansie che volano basse, che ritornano uguali come note di un disco rotto. Abbattersi sul divano come un pugile suonato nell’angolo di un ring. Proprio di fronte, sul tavolino di ottone, c’è una foto di mio padre. Bella foto: lui ancora quasi giovane, la fronte corrugata come quando scriveva sulla sua Olivetti, e il giornale era in chiusura. Un mozzicone di Nazionale “senza” stretto fra la punta dell’indice e quella del pollice, avidamente, a succhiare l’ultimo velenoso fiato di nicotina. Foto scattata in una giornata tosta. Lo sguardo è da battaglia, ostinato, come dicesse: la sfangheremo, anche questa volta. Lo fisso: davvero, dici? Anche questa volta? Come sono vivi i suoi occhi. Occhi come questi hanno, credo, i soldati che combattono per la terra in cui sono nati.
Ce la faremo, papà, anche stavolta. Ma tu, sei solo il mio ricordo, o invece sei, vivo, in un oltre inaccessibile? A volte sembri così vicino. Quasi troppo vicino perché io ti possa vedere; o addirittura dentro di me, in quel pozzo interiore cui vado ad attingere, a sera, in giorni come questi, lenti e opachi. Mi hanno insegnato, e in fondo me lo hai insegnato anche tu, che reale è solo ciò che si può toccare e pesare; che il resto, ciò che non si può inchiodare ai nostri umani sistemi di misura, semplicemente non è, non esiste. Eppure com’è intenso questo nostro guardarci, stasera. So che cosa diresti, se ti raccontassi; so la tua mimica, e gli accenti, e i silenzi; quasi posso vederti, tanto è trasparente in questo istante la barriera fra i nostri mondi. (Certo, mi sorride superiore la parte razionale e saggia di me, tutto questo è solo una tua proiezione). Forse, se andrò a dormire questo muro di vetro cadrà, e, sognando, mi sarai accanto, vivo. Come quella volta che ero in partenza per un paese lontano, in Africa, uno di quei posti dove ci si ammazza anche senza una ragione. E avevo un po’ di paura.
Finché una notte ho sognato che in una sala stampa gremita di giornalisti io mi trovavo addosso un impermeabile sdrucito, troppo grande per me, con, nelle tasche, di tutto: fazzoletti aggrumati e sigarette, biro, scontrini, monete di paesi stranieri. Allora mi sono svegliata, e ho capito: quello era il vecchio Burberry di mio padre, liso, bruciacchiato in un angolo, impregnato di nicotina. Con il caos nelle tasche, come l’aveva lui. L’impermeabile di mio padre mi stava addosso come un mantello, come una cappa, a proteggermi, e voleva dire: non aver paura, ci sono io a guardarti, laggiù. E così ero partita tranquilla.
Oh certo, storie come questa non sono misurabili, né scomponibili in alcuna formula chimica conosciuta. Quindi, non appartengono alla realtà. Quale realtà? Quella, piccola, che ci siamo dati come unico terreno di gioco possibile. Ma come mi guardi questa sera tu, dalla foto nella cornice d’argento. Mi fissi, tenace, buono. Così follemente vicino che forse, se mi voltassi, ti vedrei accanto. Anche questa volta la sfangheremo, tu dici? Dormire, ora. Buonanotte, papà, che adesso è tardi.