Il centro di Milano in questa domenica d’agosto è abbandonato e torrido: sembra che il caldo venga su come vapore dall’asfalto molle, su cui i tacchi delle donne lasciano lievi impronte. Dietro le fila di persiane chiuse immagino le case silenziose, gli schermi neri delle tv spente. Tirate a lucido le portinerie dei palazzi borghesi, e, fuori e dentro, nessuno. La tastiera del citofono d’ottone scotterebbe, credo, se osassi premere un bottone; e il citofono gracchierebbe desolato per le scale vuote.
Certo, qualcuno sarà rimasto, ma anche quell’uno forse ha serrato le persiane, fatto provviste, e se ne sta lì come barricato – sperando di non avere bisogno, nella città deserta, di nessuno.
Quante volte ho visto Milano così, nel colmo del suo letargo agostano, trasfigurata rispetto alla città che so e che amo. Eppure nemmeno quest’anno riesco a sfuggire alla malinconia che mi danno le strade spopolate dove trovi tutti i parcheggi che vuoi, e il rosso e il verde dei semafori si alternano uguali e inutili. Un raro tram passa e va per la sua strada; a bordo, mi pare, c’è solo il conducente, che nemmeno apre le portiere, alla fermata dove nessuno aspetta.
Mi sembra, Milano nella domenica d’agosto, come un gran cuore che ha smesso di battere; dove non circola più la linfa degli uomini che vanno e vengono e corrono, né il traffico che rallenta e si gonfia e si imbroglia, nelle ore di punta. Non corre il sangue, nelle arterie di Milano, oggi; l’edicola è sbarrata, il tabacchi ha la saracinesca serrata, e come vorrei un bar, un qualunque bar dove si entri, al mattino, e ci si spinga per guadagnarsi un pezzo di bancone e bere il caffè fumante che le mani del barista allungano rapide nelle tazzine, uno dietro l’altro.
Vorrei il rumore della ramazza del custode sul cemento del cortile, alle sette, e lo sfiatare nervoso dei freni degli autobus in coda; e il vociare dei branchi di ragazzi all’una, quando escono da scuola. “Ma, lo sai, torneranno”, mi dico. Ma certo, torneranno, tornerete tutti, e di nuovo combatteremo per un parcheggio, e per il primo caffè al banco di un bar. Senza accorgerci forse di come è bello questo affannarsi di uomini che arrivano da lontano e si affollano ai caselli o corrono giù per le scale del metrò, ogni mattina; senza sapere, questo andare, lavorare, studiare, questo scorrere nostro nelle vene di Milano, come è bello.
Lo si vede bene oggi, nella lanca in cui il nostro fiume si è arenato, in una domenica d’agosto. Lo si vede adesso che quel cercare, affrettarsi, faticare, tendere, è l’ordito del nostro destino; la guglia dell’ago che tende ad ogni alba, ostinata e fedele, un altro filo.