Tratto dal numero 21/2012 di Tempi
Il Garibaldi a cavallo di piazza Cairoli è identico. Le mura del Castello, uguali a sempre. Da un finestrino del tram Milano mi passa davanti, a me ben nota. C’è il sole, ed è maggio. Cos’è allora questa nota impercettibilmente dolente nel rumore di fondo dei pensieri? Questa sottile trafittura è il tempo. È una domanda muta ma insistente: come è possibile che le cose restino così sfrontatamente uguali, mentre noi passiamo e ce ne andiamo? Voi che avete vent’anni non potete capire. Da piccola nemmeno io me ne accorgevo. Ricordo distintamente il mondo come era, visto dal basso del mio metro di statura. Come era l’erba dei giardini di via Palestro, e l’arco di via Manzoni. Guardavo, allora, senza la inquietudine che ho ora; giacché tutte le cose mi sembravano nate con me, coetanee; e a fatica riuscivo a credere che davvero esistessero da tanti anni, o addirittura – assurdo – da secoli. Il tempo prima di ed era una nebbia impenetrabile, e probabilmente irreale. Comunque, non più reale di un sogno. Esistono forse, le immagini di un sogno?
Altrettanto immateriali erano ai miei occhi i tempi in cui io non ero nata. Come se il mondo fosse generato dal mio sguardo bambino. Ma già da adolescente ho cominciato a guardare alle stesse pietre con una sommessa diffidenza: “loro” uguali, ma io già diversa. Assistevo meravigliata al fenomeno del restringimento di cose che un tempo mi parevano enormi. Soprammobili e oggetti nella mia memoria incombenti e massicci, a guardarli ora si svelavano piccoli, banali, quasi meschini. Ma crescendo la inquietudine è andata peggiorando. Già a trent’anni mi era evidente che le cose, le case, le pietre, restavano del tutto indifferenti al mio invecchiare. “Loro” impudentemente mi fronteggiavano, tali e quali.
Il Vittorio Emanuele in mezzo a piazza Duomo, per esempio: sfacciatamente identico a quando ci passavo sotto, attaccata alla mano di mia madre. Evito di guardare ormai la scuola elementare di Porta Nuova, quando ci passo accanto. Perché a quelle finestre incollavo i babbi Natale, o le foglie, d’autunno, e giù da quegli scalini correvo nel chiasso festoso della campana dell’ultima ora. E adesso sono andata lontano: nello specchio retrovisore dell’auto vedo una donna matura. Ma lei, la scuola, come è assolutamente uguale ad allora.
Mi immagino che un giorno avrò ottant’anni e passerò di qui, e alzerò gli occhi ai grandi ippocastani dei Bastioni. E anche loro saranno imperturbabili, come se non mi conoscessero affatto. E allora avrò un poco di paura. Forse a una certa età bisognerebbe cambiare città, cercare strade che non ti ricordino il passato? Strade e piazze vergini di ricordi, in cui non confrontarsi ogni mattina con ciò che è stato ed è andato. Oppure, bisognerebbe convertirsi. E, certi di Cristo vivo come del proprio battito del cuore, sapere anche nella carne che “tutto in lui consiste”, e che chi vive in lui non muore. Bisognerebbe convertirsi, ma davvero. (Ma, come fanno gli altri?, mi domando, non hanno gli altri la mia stessa paura? L’hanno; ma come per omertà fra noi taciamo di questa polvere che cala lenta, e all’apparenza ricopre, adagio, ogni creatura).