Tratto dal n.15/2012 di Tempi
Ci sono giorni in cui camminare per Milano mi duole, come duole sotto la mano del medico una caviglia slogata. Questa mattina di pioggia a Brera per esempio, così simile a quando qui andavo a scuola. Passo davanti al Parini, getto lo sguardo oltre il portone: intatta la grande scalinata doppia, e, certamente, i cortili chiari, ben squadrati, ampi. Uguali, immagino, i passi di corsa degli studenti giù per le scale, quando suona la campanella dell’ultima ora e si corre fuori, a fumare, a chiaccherare, a guardare le ragazze. E anche il Tumbun de San Marc a guardarlo dalle vetrine sembra identico a quando, nelle giornate di sciopero, noi “qualunquisti” si andava a bere il cappuccino, tirando l’ora per tornare a casa senza dar troppo nell’occhio. Uguale poi, struggentemente uguale la chiesa di San Marco, profonda, ombrosa, uterina; dove io andavo, senza una precisa ragione, a rifugiarmi; dove, pur dubitando, accendevo una candela prima del compito di matematica (che, quasi sempre, andava comunque malissimo).
Ci sono giorni in cui camminare per Brera, dove sono stata ragazza, mi dà questo sotterraneo, quasi indecifrabile dolore, che io cerco di ignorare. Ma quello insiste, bussa, come un visitatore ostinato. Che sciocca malinconia, sbuffo, «io a te proprio non ti sopporto», dico a me stessa. Ma quella mi si accosta, insegue, rode. Malinconia perché? Perché il tempo passato è perduto. Non lo sapevi? No, non sapevo, come non sanno questi ragazzi fuori dal Parini; nessuno sa, da giovane, la rapina del tempo. Nessuno sa, e tutti credono che loro non invecchieranno, mai. E poi tutti o quasi, per naturale inclinazione, dal tempo che passa ci sentiamo consumati: basta guardare come ci si raggrinza, come ci si rinsecchisce nella tarda vecchiaia. Il tempo ci depreda, è il sentimento comune fra noi uomini; fino a che poi non ci cancella del tutto.
L’altro giorno però proprio qui a Brera sono andata al funerale di un’amica. C’era una chiesa piena di gente, anzi, stracolma; c’erano canti bellissimi, e sulle facce di chi l’aveva più amata una inattesa, sbalorditiva speranza. Lei ha lasciato scritto: «Pregate perché Cristo sia vivo fra noi, così che possa sostenerci ed essere riconosciuto da chi ci è vicino, incontrato da chi ci accosta». E io guardavo le facce dei suoi e vedevo quella audace certezza: di un destino che è buono, di un tempo che non è logoramento e rapina, ma strada che un giorno dopo l’altro avvicina a un compimento.
Anche se noi non capiamo, anche se noi non vediamo. Anche per chi si intristisce ricalcando le strade dei suoi sedici anni, convinto che la vita sia ormai dietro alle spalle, da quel funerale il riverbero di una possente certezza: mentre andiamo nell’ombra come ciechi la vita, quella vera, ci attende. Né fantasma né sogno, ma granitica promessa. Di modo che fuori da quella chiesa mi guardavo attorno stranita; come indecisa, fra le mura dell’Accademia e i marmi del Parini, su quale sia davvero la realtà – la vera.