Tratto dal n.12/2012 di Tempi
Carate Brianza, 1 marzo. Questa finestra si affaccia proprio sul centro antico del paese – le vie irregolari e strette, le vecchie case, viste dall’alto, assiepate come un gregge attorno al campanile. E i loro tetti larghi, solidi, le tegole di cotto allineate in file non precisamente regolari, e mai del tutto uguali nel colore. Rosse, sì; ma alcune più pallide, altre più cotte, o più scure. Come se la diversa angolazione del sole, in lontane estati, le avesse accese o brunite. Mi affascina soprattutto la mole di questi tetti, pacifica, adagiata sulle case degli uomini: sembrano groppe di docili animali da soma, pazienti, immobili a proteggere le stanze dalla pioggia, dalla neve, dal sole a picco di luglio.
Quanti anni avranno le case qui sotto? Certo più di cento. Quante vite sono passate, sotto ai tetti larghi come ali di chioccia sulla nidiata? Se solo i muri potessero raccontare. Grida di partorienti, primi vagiti, echi di giochi infantili; e amori, e solitudini, e ragazzi vestiti da soldati che una mattina, lo zaino in spalla, sono partiti. Da qualche parte forse una lapide riporta i loro nomi, sbiaditi. Gli uomini passano e le case restano, sotto le tegole di cotto bollenti a luglio, un anno dopo l’altro. (Mi affascina e mi inquieta, la prospettiva dei tetti; come fosse lo sguardo di qualcuno che, straniero, vegli dall’alto). C’è, questa mattina all’orizzonte, uno stormo, forse di rondoni, lontano; che vola in formazione regolare e passa e ripassa sulle case, come cercando qualcosa; poi, si allontana.
Per un attimo le ali degli uccelli sono tutte rivolte al sole di marzo, e allora sono lucenti, quasi bianche. Che siano colombi? Vanno e ritornano, senza mai posarsi; chissà cosa cercando, mi chiedo, dalla mia finestra. E com’è strano che, dall’alto, le case degli uomini sembrino altre, come mai viste davvero, nella rete di speranze che le colmano e impregnano.
Assomiglia a nostalgia il mio sguardo assorto sui tetti. Nostalgia di cosa? Non conosco nessuno, in queste case. Nostalgia di vite passate e ignote, di storie, che non saprò mai. Come se tuttavia ogni parola, ogni faccia mi riguardasse e non mi fosse estranea; come fossimo tutti foglie di uno stesso albero grande. Nella giornata già tiepida un gatto bianco spuntato da chissà dove percorre con passi felpati un tetto; si ferma nell’angolo più battuto dal sole, si acciambella sui coppi caldi, e beato dorme. Primavera, ancora: una dopo l’altra, per cento anni, sulle tegole rosse. Mentre nelle stanze qui sotto i bambini di un tempo invecchiano, e se ne vanno. Che mistero grande, sospeso sulle case degli uomini. Mentre un gracidio di tv accese a tratti sfugge dalle finestre chiuse. Perché parliamo, parliamo; ma mai di ciò che abbiamo veramente, qui nel petto.