Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – So che non dovrei aprire quella vecchia scatola da biscotti, su uno scaffale basso della libreria, in salotto. È piena di foto in bianco e nero di oltre 70 anni fa: mio padre e mia madre ragazzi, giovanissimi, ai miei occhi irriconoscibili. Come apro quella scatola è come se qualcuno, gentilmente ma con forza, mi prendesse per mano e mi conducesse indietro – mentre la mia casa di oggi, attorno, perde consistenza. Ma stamattina l’ho aperta, la scatola verde, e di nuovo dalle immagini ingiallite è esalata una magia: come cadere dentro il pozzo del tempo.
La prima foto che mi viene in mano è di un albergo sull’Appennino parmense, brutto, di stile littorio. In una sala di quell’albergo, in una sera dell’estate del ’38, mio padre e mia madre ballarono insieme per la prima volta, sapendo l’uno dell’altra il nome, e nient’altro. Poi ecco lui, in divisa da alpino, l’aria baldanzosa di chi crede di partire verso una grande vittoria (come è cambiato il tuo sguardo, penso, negli anni, e come è diventato più buono). E questa invece è mia madre, giovanissima, i tratti dolci e fini. Quanto ignari erano quei due, nell’estate del ’38, del mondo che stava per esplodere: lui spedito in Russia, lei crocerossina negli ospedali militari. Ma, mi dico con tenerezza, quanto fanciulli eravate su quelle bici, a Parma, sotto al sole del luglio del ’38.
Poi, un vuoto di alcuni anni. Ritrovo mio padre e mia madre a Milano, in piazza San Babila, mano nella mano, nel settembre del ’45. Giovani ancora: lui, tornato dal Don, con negli occhi una gravità dolorosa. Dove andavate, vorrei chiedere, così sorridenti, in quel mattino di settembre? Forse all’anagrafe, per le pratiche del matrimonio? Ed ecco, in foto piccole e sfocate, le nozze, austere, nell’immediato dopoguerra. Mio padre aveva portato in dono una coperta di pura lana, preziosissima, e ben tre chili di zucchero. Come eravate belli, mi dico con malinconia, pensando a come poi è finita, alle liti, alla rabbia, fino a che mio padre mise le sue cose in tre valige e se ne andò, solo.
Poi penso a quella figlia morta bambina, e alla deflagrazione di dolore in una casa perbene, nel centro di Milano – dove eravamo, in verità, completamente soli. Penso anche a mio fratello, che se ne è andato un anno fa, così presto. E insomma la scatola verde ormai mi ha del tutto ammaliato, piena com’è di bene e di dolore, e di speranze. Speranza, già: dov’è, mi domando, il punto di speranza, in questa scatola? Tutto sembra finito, e anche piuttosto male. L’unica che c’è ancora, del naufragio di quella famiglia borghese, sono io.
E però – mi dico, alzando gli occhi alle foto in cornice sulla libreria – ci sono i nostri figli, i vostri nipoti. Ritrovo la carnagione candida di mia madre nel primo, da bambino; nel secondo lo sguardo certo di mio padre, ragazzo; nella terza la grazia di giunco esile di mia madre. Allora prendo la foto di piazza San Babila nel ’45, in cui quei due erano così belli, e la piazzo in cornice, sulla libreria, accanto alle altre: con prepotenza. Una storia, tuttavia, continua, ed è buona, mi dico, cocciutamente. E non era inganno il sorriso della sposa, quel giorno, sotto al velo bianco.
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