Protagonista della VII edizione di Enel Contemporanea, l’artista giapponese Toshiko Horiuchi MacAdam, che ha appena inaugurato al MACRO – Museo d’Arte Contemporanea Roma una grande istallazione interattiva dal titolo Harmonic Motion, racconta a Tempi la storia di coraggio, presa di coscienza e dedizione che ha animato il suo ricco percorso creativo.
Lei è cresciuta durante i tempi duri del Giappone del dopoguerra, è la figlia di un dottore e di una farmacista piena di inventiva e appassionata di lavori a maglia. Ha avuto la fortuna di frequentare ottime scuole e di esprimere la propria personalità, infatti ha deciso di non seguire le orme di famiglia studiando medicina, ma di frequentare una scuola d’arte. Quale fu la reazione dei suoi genitori?
Mio padre ha studiato farmacia e poi medicina, mia madre era una farmacista e una cuoca molto creativa. Furono molto contenti della mia decisione, perché mio padre avrebbe voluto diventare un’artista e anche mia madre aveva una vena artistica. Anche il mio bisnonno, il padre di mia madre, era un medico, ma amava l’arte e sosteneva gli artisti. Fu tutto molto naturale.
La sua attrazione per i tessuti è sempre stata forte, soprattutto perché vedeva nel tessuto una sorta di seconda pelle, che presentava molte affinità con l’epidermide umana. Come potrebbe allora definire un tessuto in base al suo punto di vista?
Sono stata attratta da molte cose, dalla pittura, dal fare, e in qualche modo il tessuto è sempre stato importante. Ma c’è qualcosa in più, una sensazione che c’è sempre stata e che è difficile da spiegare bene. Solo dopo aver sperimentato la pittura, l’acquerello, ho capito che amavo tingere i tessuti: i colori delle tinture sono molto luminosi, sono colori particolari, differenti. Dunque, il mio interesse per i tessuti si è fatto sempre più spiccato. Poi c’è un’altra parte di me che ama le strutture, le geometrie, le masse, e i tessuti hanno in loro questo tipo di strutture. E’ grazie a tutte queste connessioni che la mia passione per i tessuti si è fatta sempre più forte.
Lei afferma che il tessuto viene creato dall’uomo per l’uomo, ma a un certo punto della sua carriera ha capito che si stava allontano un po’ da questa idea di base facendosi risucchiare dal circolo, spesso rarefatto, di musei e gallerie eccessivamente mercificate. Oggi il suo approccio è diverso e il suo interesse è quello di coinvolgere il pubblico. C’è qualche episodio in particolare che l’ha scossa in questo senso?
Quando sono cresciuta come artista ho iniziato a esporre i miei pezzi nei musei ed erano molto apprezzati da tutti, ma c’era qualcosa che mancava, che mi mancava, non ero completamente soddisfatta, ma non capivo cosa fosse fino a quando, in un’altra mostra, è iniziata ad emergere la connessione tra gli essere umani, l’opera d’arte e il tessuto. Ho iniziato a capire come i tessuti fossero sviluppati come una seconda pelle per coprire i corpi delle persone. Avevo dimenticato quest’aspetto, ero concentrata troppo su me stessa, era solo il mio ego che emergeva. Durante questa mostra le persone hanno iniziato ad entrare dentro all’opera, hanno iniziato a farla muovere in maniera dinamica e per me è stato un momento bellissimo. Non era più una cosa immobile e finalmente il tessuto poteva mostrare la sua specificità: in quel momento ho capito che dovevo andare in quella direzione. Ecco cosa ha riempito il vuoto che sentivo, quello di cui io stessa non ero ancora sicura è sbocciato, si è rivelato. Voglio fare qualcosa per le persone, qualcosa di cui si possano sentir parte, che non sia solo per me stessa e per alimentare il mio ego.
Come è l’opera al Macro di Roma?
E’ un progetto molto interessante per me perché sono stata lontana dai musei per più di 24 anni. Tutti i miei pezzi sono stati esposti in Giappone e poi ho cercato di fare arte pubblica con mio marito Charles. Il mondo dell’arte piano piano è diventato molto distante da me, poiché sto facendo arte per la gente in spazi pubblici. Questo importante progetto mi consente di tornare al Museo con un grande staff, tutte le persone che lavorano con me che mi fanno sentire che non è solo il mio lavoro, ma stiamo lavorando tutti insieme per creare qualcosa di nuovo nel mondo dell’arte e questo è molto emozionante. Ci sono molte persone coinvolte in ogni singolo dettaglio e mi sembra quasi di star realizzando un film: non è un lavoro personale, ma un lavoro collettivo per realizzare una mostra non per me, ma per le persone oggi e del futuro. Costruire quest’opera è stato fisicamente molto faticoso, ma vedere la gioia dei bambini quando ci giocano al suo interno mi riempie di soddisfazione.
Quando racconta della sua infanzia non approfondisce mai nel dettaglio l’orrore, la paura e la brutalità che hanno segnato i suoi primi ricordi. E’ una bella lezione quella che ci dà e una dimostrazione di come la passione per l’arte e l’apertura agli altri possano guarire molte ferite. Quale consiglio darebbe a chi ancora non riesce a superare le proprie paure?
Tutti questi ricordi orribili sono sempre presenti, ma riguardo la natura umana ho imparato che tutte le cose brutte che l’uomo fa, e che tutti potremmo fare vivendo situazioni tremende, dipendono dal fatto che l’uomo ha una parte bella e una brutta, è così. Io preferisco coltivare la mia parte bella e l’ho fatto per tutta la vita, fin da bambina, quando ho cominciato a capire che preferivo sviluppare qualcosa di bello e lasciar tacere la mia parte negativa. Da sempre l’uomo vive terribile situazioni per motivazioni diverse, ma invece di portarsi perennemente questa paura dentro è meglio guardare verso una direzione positiva, verso le cose belle che ci circondano, verso la natura, in modo che queste paure si assopiscano nella mente e consentano di vivere una vita soddisfacente. Non c’è un’unica risposta alla sofferenza, ma tutte quelle paura mi hanno insegnato molto. La vita è piena di difficoltà, ma bisogna guardare al “sunny side of life”, sorridere, divertirsi, come fanno i bambini e come anche io ho sempre cercato di fare.