Il Museo Madre di Napoli apre le sue porte all’eccellenza del vino: venerdì 27 marzo 2015, alle ore 19, sarà proiettato il video Sentieri di vite, realizzato dal regista Nicolangelo Gelormini per una delle aziende vinicole più antiche e prestigiose d’Italia, quella della famiglia Mastroberardino. Con il suo stile lineare, Gelormini ha saputo tradurre in immagini, secondo le più moderne tecniche dello storytelling, la storia che Piero Mastroberardino intendeva raccontare. Abbiamo intervistato entrambi i protagonisti dell’evento, che ci hanno raccontato come è nata la loro fruttuosa intesa. Dopo la presentazione al Madre, il video diventerà contenuto fruibile attraverso i QR code apposti sulle confezioni dei vini: basterà uno smartphone per poterli gustare.
Limitarsi all’assaggio di un buon vino, per quanto poetico ed evocativo possa essere, non basta per catturare ogni sfumatura della sua storia: il processo di creazione è lungo e richiede passione e dedizione. Quali sono le linee guida da voi adottate per non sfuggire all’eccellenza?
Mastroberardino: Eccellenza non è un termine che amo. È abusato e come tutte le espressioni inflazionate tende a svuotarsi di significati, a banalizzarsi. Spesso il nostro lavoro viene valutato in chiave tecnica, mentre io sono cresciuto in un concetto di vino che non può prescindere dall’emozione, dalla creatività. In questa ottica esso abbandona e supera anche la limitata visione di una scala di valori unidirezionale e indossa i panni di una percezione multiforme e variopinta, assimilabile più all’opera d’arte che al frutto di un sapere tecnico. Il mondo del vino che conosco e frequento ha al centro delle risorse naturali l’individuo, con la sua sensibilità, imprevedibilità, arte, follia. È questo che fa la differenza e qualifica il mio sforzo non in termini di produzione, bensì di creazione, senza avere la pretesa di attribuire a quest’ultimo vocabolo eccessiva enfasi: è semplicemente il coinvolgimento pieno del sentire dell’uomo nelle vicende del suo ambiente naturale e sociale.
Vi prendete cura dei vitigni autoctoni dell’Irpinia e della Campania dalla metà del Settecento: dieci generazioni di una famiglia che difende questo patrimonio del gusto. Quali sono le varietà più antiche ed apprezzate oggi?
Mastroberardino: Senza dubbio il Fiano, vitigno da cui trae origine il nobilissimo vino Fiano di Avellino DOCG, poi l’Aglianico, l’antica varietà che marca inconfondibilmente il Taurasi DOCG, quindi il Greco, più allegro e scanzonato, posto a base del vino Greco di Tufo DOCG. Questi sono i tre pilastri della nostra viticoltura classica riconosciuti ormai nel mondo, che la mia famiglia nel corso di vicende di generazioni ha più volte difeso e salvato dal rischio di estinzione, dando continuità a una storia millenaria.
Come è nata l’idea di collaborazione con il regista Nicolangelo Gelormini?
Mastroberardino: A causa delle mie personali attività artistiche mi sono trovato coinvolto in uno splendido progetto sull’arte contemporanea realizzato nella mia terra, l’Irpinia. In quella occasione ho conosciuto la curatrice del progetto, Maria Savarese, e il regista Nicolangelo Gelormini, che ha diretto un documentario in cui ero fra gli intervistati. Sono così venuti entrambi a trovarmi e nelle varie discussioni ho narrato loro la mia percezione della vite come scrigno e simbolo di sofferenza, base per la generazione e rigenerazione sempre diversa, pur nell’apparente ciclica ripetitività del suo esistere, del suo modo di attraversare gli eventi e le stagioni. Di lì l’idea di lavorare insieme a questa rappresentazione dell’anima della vite, pianta antichissima e affascinante nel suo inimitabile modo di esprimersi, fatto di imprevedibilità, indeterminatezza, eppure al tempo stesso così tangibile e concreto, graffiante, forte e vulnerabile.
Cosa avete provato quando avete ricevuto l’invito di Mastroberardino a raccontare la storia di “creazione, arte e sofferenza” della sua azienda vinicola?
Gelormini: Da un lato mi ha sorpreso, perché mi aspettavo una richiesta più attenta alla celebrazione del marchio e dell’azienda (dalla storia ultracentenaria), dall’altro sono stato contento di scoprire che il mago di Oz che si celava dietro il celebre vino, tra i più conosciuti al mondo, era un giovane uomo dedito alla scrittura e all’arte, che ha posto subito il focus su una dimensione umana, sensoriale ed intimistica.
Qual è la parte più difficile per un regista che si impegna, con un cortometraggio, a diventare narratore di una storia personale che deve appassionare?
Gelormini: Trasmettere attraverso le immagini il segreto nascosto in quelle botti ed in quelle bottiglie, portatrici di un messaggio di storia, dedizione e qualità in ogni angolo del pianeta e sintetizzare l’idea che il vino è un’entità viva, mai uguale a se stessa, figlia del lavoro della terra, del tempo e dell’uomo, è stato lo scoglio da superare. Il resto è venuto alla luce naturalmente.
Come è il suo rapporto con il vino? Esperto di etichette o esploratore?
Gelormini: Non sono un grande esperto, anche se dopo questa esperienza sono diventato più attento, tuttavia ho sempre associato al vino un’idea archetipica di nobiltà, verità e piacere.