Alle cinque del pomeriggio, quando vado a prendere il piccolo alla materna, i corridoi della scuola sono esplosivi: a fine giornata i bambini scoppiano di gioia e pianti, abbracci e schiaffi, tutto insieme disordinatamente. E ogni tanto mi dico: «Se ora è così, quando arriverà l’adolescenza io scappo alle Hawaii». Sì, Hawaii che suona così simile all’inglese away, altrove. Mi viene in mente ora, che leggo due scarne righe sul suicidio di un quindicenne a San Vendemiano in provincia di Treviso. Nicholas si è impiccato nella sua cameretta, dentro l’armadio, lo ha trovato il papà, non vedendolo scendere per cena. Era lì, Nicholas, nella stanza accanto; eppure, chissà in che altrove era? Tra la cucina e la cameretta si è aperta una distanza abissale. Il papà ha rilasciato un’unica dichiarazione alla stampa, rivolta ai coetanei di suo figlio: «Ragazzi, confidatevi».
Gli adolescenti sembrano sempre altrove, anche se sono qui. Io li incontro solo quando mi chiamano nelle scuole a parlare di Dante; e li vedo seduti di fronte a me, e dalle loro facce non capisco mai bene se ascoltano anche solo una parola su venti di quel che dico o se pensano ai fatti loro. E allora mi fermo, chiedo loro di intervenire, di fare domande. Quasi sempre stanno zitti, poi però, qualche ora dopo la lezione o qualche giorno dopo, mi subissano di mail, di lettere così lunghe che al confronto Guerra e pace è un aforisma.
Sono smisurati ed eccessivi; quello che viene definito il loro disagio o età critica è anche, nella sua complicatezza, la percezione di un’intuizione gigantesca. La stessa che ebbe Ulisse alle Colonne d’Ercole: fino ad allora lui aveva navigato usando il verbo «vedere» e la parola «esperienza», poi, una volta resosi conto che mancava qualcosa di grande alla comprensione di sé e del mondo, apostrofa i compagni usando un altro verbo: «Considerate la vostra semenza». La nostra semenza è considerare. Etimologicamente questo verbo significa misurare qualcosa avendo come unità di misura la distanza dalle stelle. Cum-sidera: l’adolescente sente ingarbugliatamente forte il bisogno di usare gli anni luce come misura di sé; non bastano certo i ristrettissimi chilometri. E per i loro urli – lo sanno bene i genitori – non bastano i decibel. Devono farsi sentire fino in fondo alla galassia.
Ha ragione il papà di Nicholas, quando usa il verbo confidarsi. Che inizia con la preposizione “cum”, come considerare. I ragazzi si mettono a paragone cum le stelle, e noi adulti non possiamo solo dir loro di fidarsi dei nostri insegnamenti, devono cum fidarsi. La fiducia è partecipazione a un progetto, non lezioncina moralistica. Questo loro sentirsi in relazione con tutto l’universo, è un’eco dell’origine umana che loro sentono meglio di noi. Giorgia canta: «Quando una stella muore… un bacio se ne va, l’universo se ne accorgerà». Perché è vero che l’universo intero si accorge se manca il bacio di un uomo, la sua voce capace di affetto. Non è egocentrismo, è coscienza del compito importante di ciascuno, che per quanto piccolo non è mai invisibile. Ecco, in tanti fissiamo lo sguardo altrove, ai venti di terrore che giungono dalla Libia, ma stiamo all’erta pure qui – ci dice Nicholas, voce di tante piccole e incommensurabili perdite che ci sfuggono di mano in casa nostra.
Foto bambino da Shutterstock