Terra di nessuno

Il profumo dei ricordi. La memoria nell’aria di Milano

caprifoglio-pixabay

La rubrica di Marina Corradi tratta dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – In questi giorni caldi di fine maggio cammino per Milano e, senza una apparente ragione, improvvisamente attraverso: dall’altra parte della strada ho visto una siepe di gelsomino, e mi piace lasciarmi cadere nella nuvola del suo profumo. Lasciarmene inebriare e assaporarlo, centellinandone i toni di ambra e miele; respirarlo, cercando di memorizzarlo, perché non mi abbandoni. Quel profumo mi ubriaca: mi pare promessa d’estate, o eco misteriosa di festa nuziale. È l’aroma, ho sempre pensato, che percorre il Cantico dei Cantici – colmo com’è quel libro sacro di desiderio, e di attesa.

Ma poi spesso, pure tra l’asfalto e il cemento di Milano, mi succede, a maggio, di incrociare folate di acacia, per esempio, dolce e densa, e di annusarla golosamente. Dai cancelli dei magri giardini condominiali si sporgono, sfacciate, le rose; e da quelle rosse, o porpora, emana un vapore gentile, discreto, che senti soltanto se avvicini il naso alle corolle spalancate. L’issotopo, anche, più aspro, mi piace; il glicine violetto che gronda a grappoli dai pergolati è struggente; e i fiori del tiglio mi fanno impazzire con il loro fiato colmo di estate, di caldo, di ultimi giorni di scuola.

Perché certamente il mio gioco sta appeso a un filo sottile tra l’olfatto e i ricordi. Mi inebria, il caprifoglio corteggiato da api pazze di gioia; ma ciò per cui mi commuove è, credo, che mi ricorda qualcosa. Qualcosa di bello; di lontano, forse, eppure di vivo. Qualcosa che coscientemente spesso non so riconoscere. Eppure i profumi di questi giorni mi portano indietro, alle prime volte che, a sedici anni, uscivo di sera; all’odore dell’aria dalla finestra aperta, quando, china sui libri, studiavo; e tutto, in quell’ebbrezza, mi diceva: alzati, andiamo, è ora di vivere, adesso.

O forse addirittura quest’aria che mi commuove ha in sé la memoria di giorni remoti di infanzia, che non so ricordare? Che profumo aveva l’aria, di maggio, quando a un anno, o due, mi portavano ai giardini di via Palestro? Non ho la memoria di quegli anni, eppure quegli echi di caldo, di erba, mi pare di averli dentro da sempre; e che portino ancora, messaggeri segreti, la cifra di braccia materne, di giochi, biberon, ninna nanne. Di un tempo innocente e beato.

Adoro dunque questi ultimi giorni di maggio, quando per la prima volta la terra scotta, e dai prati sale l’aspro elisir dell’erba appena falciata. Mi piace lasciarmi prendere, dall’aria di maggio, per il naso, e condurre in arcani splendenti sentieri. Avverto, in queste folate che mi incantano all’angolo di strade grigie, qualsiasi, qualcosa come una promessa indicibile.

Di cosa? Non so, o forse sono cose che non si lasciano dire. È quasi come se, veramente, qualcosa mi fosse stato promesso – ma non so dove, e quando. In pegno, fugace, a un incrocio, quell’eco di feste nuziali, quel denso improvviso donarsi, in luoghi qualunque, di candidi fiori impazziti di luce. Davanti a un cartello sgraziato che avverte, banale: lavori in corso, traffico rallentato.

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