«I figli ci vengon dati per diventare grandi». Lo farò col mio secondogenito di cinque anni. Ha la disprassìa

“Disprassìa s. f. [comp. di dis-2 e prassia]. – In medicina, incapacità o difficoltà a eseguire movimenti diretti a uno scopo preciso”. Pare soffrirne il secondogenito. In primavera la maestra mi parlò di lui in termini di “immaturità” delle emozioni, della parola e dei movimenti. Da cui il consiglio di sentire un parere medico. Alla prima visita in un centro specializzato in recupero psicologico-logopedico-motorio, la neuropsichiatra infantile formulò l’ipotesi di cui sopra, tutta da verificare tramite diversi test. Detto fatto, è da giugno che lo ribaltano come un calzino: test-visita di psicologia, logopedia, psicomotricità. Ora io e il marito attendiamo il cosiddetto “colloquio di restituzione” in cui ci verranno comunicate le conclusioni tratte da quest’osservazione e ci verrà proposto un percorso.

La mia reazione di fronte alla sua “sconclusionalità” – che forse ora troverà un riscontro scientifico -, fatta di: dimenticarsi perennemente le luci accese (soprattutto quella del bagno), non ricordarsi le tre-operazioni-tre che deve compiere ogni mattino da tre anni a questa parte, ovvero da quando ha tolto il pannolone (fare pipì-lavarsi denti-mani-faccia: una la salta sempre), il suo incedere disordinatamente in piscina come se i vari pezzi del suo corpo non gli appartenessero e agissero indipendentemente l’uno dall’altro (e soprattutto indipendentemente dalle indicazioni dell’istruttrice, disperata), il suo esigere che i compagni d’asilo sappiano a memoria le battute dei suoi cavalli di battaglia, Il gatto con gli stivali/Gli Incredibili/Dragon Trainer, e finisce che in quel suo mondo di fantasia ci gioca da solo, e molto altro ancora; tutto ciò fa scattare in me un’istintiva – lo voglio dire nell’antica e francese langue d’oc per farmi capire meglio anche dai filologi tra voi – incazzatura. Per avere davanti agli occhi qualcosa di diverso da ciò che avevo immaginato; perché con lui si fa più fatica a far tutto; perché mi fa venire grandi sensi di colpa. Eppure anche lui è nato da me e dal marito come la sorella (femmina-alfa con cui sembra andare tutto in discesa, per ora…); eppure le condizioni climatico-esistenziali in cui son cresciuti son state le stesse; eppure ho dato a entrambi le stesse cose da mangiare e da bere…

Eppure. Come mi è difficile stare di fronte a uno diverso da come lo avrei in mente io, uno che è inconfutabilmente altro da me. Uno: mio figlio. Non l’immigrato da accogliere, istruire, dargli un lavoro e/o un’istruzione. Non il disabile grave in sedia a rotelle da assistere giorno e notte. Non la persona con orientamento religioso e/o sessuale diverso dal mio, con cui imbandire una vicendevolmente proficua amicizia fatta di civili scambi di vedute e da sbandierare sui social network in modo che gli amici vedano quanto sono politically correct io, quanto sono di larghe vedute eppure tenacemente e fedelmente attaccata alle mie convinzioni, io. No: mio figlio, un bambino di nemmeno cinque anni.

Il mio già accennato senso di realismo mi porta a volte a immaginarmi seduta sulla poltrona di un celebre talk-show (in nome di non si sa quale eccellenza in quale disciplina, ma tant’è), a dare le ragioni delle mie idee su matrimonio/divorzio, mondo gay, aborto, il rapporto Stato-Chiesa, la situazione politica italiana attuale e quant’altro: la nitidezza delle mie posizioni e la serenità in volto con cui le proferisco portano Daria Bignardi e Michele Santoro sull’orlo della conversione; sono lì lì per telefonare ai rispettivi parroci per chiedere se possono partecipare al prossimo consiglio pastorale perché si sono resi conto di quanto tempo abbiano perduto.

Poi apro gli occhi (il guaio è che a volte son già aperti) – nel frattempo rassicuro che Bignardi e Santoro godono di sanità mentale e brillanti carriere – e c’è il secondogenito. Anzi, no: ci sono io: io. La mia pochezza è sotto la lente d’ingrandimento. Un amico mi ha detto: «I figli ci vengon dati per diventare grandi». Come tutto. In questo senso uno “lavora” la vita, e la cartina di tornasole del suo lavoro è il suo diventar grande. Se così è, sono decisamente fuori rotta col secondogenito: perché non ho chiaro l’obiettivo “diventar grande io”. Come se uno si ostinasse a studiare a memoria un sonetto di Leopardi per trovare l’area di un quadrato.

Le cose apparentemente più scontate – voler bene a un figlio – in quest’ottica si rivelano affatto facili, per quanto semplici: implicano, cioè, appunto, un lavoro, concetto che non si associa solitamente a qualcosa di universalmente “scontato” come il voler bene a un figlio: dovrebbe esser spontaneo, no? Lavoro: la parola che più spaventa il mondo oggi, perché oggi sei figo se tutto ti viene naturale, se nasci imparato.

Caro secondogenito, lavoriamoci insieme alla tua sconclusionalità, also known as forse-disprassia: è un’occasione, per entrambi, di diventare grandi.

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