Come sanno bene i nostri lettori, da settimane (più precisamente: da quando la Corte costituzionale ha deciso di demolire definitivamente la legge 40) i giornali italiani continuano a lamentare che nel nostro paese «mancano i donatori» di sperma e di ovuli per la fecondazione eterologa, e che di conseguenza – visto che in Italia il commercio in questo settore è ancora vietato – ospedali e cliniche per l’inseminazione artificiale sono costretti ad andarli a comprare all’estero. Il cortocircuito era ampiamente prevedibile, come abbiamo ribadito ieri in questo articolo. Ed è un po’ patetico che adesso i fan della provetta invochino in coro la promozione di una cosiddetta “cultura della donazione”. È patetico semplicemente perché non si tratta di donazione. Punto.
Lo spiega in maniera perfetta l’editoriale di Francesco Ognibene che appare oggi su Avvenire, del quale riportiamo uno stralcio (qui il testo integrale):
(…) Evocare il concetto di dono quando si parla di reperimento di gameti per la fecondazione eterologa è un’operazione che ha in sé una contraddizione. Il figlio è frutto di un dono che ha la sua origine intoccabile nell’amore reciproco tra un uomo e una donna, madre e padre. È questa la forma pura del dono, il suo prototipo, del quale abbiamo tutti esperienza personale: sappiamo che cos’è, anche senza saperlo nominare. La nuova vita prende forma dalla materia prima maschile e femminile, i gameti, che materializzano il dono di sé a un altro. Un dono a tal punto totale da essere in grado di dar vita a un nuovo uomo, destinato a restare come suo segno, anche nei caratteri somatici. Questa è la nostra natura, e chi cerca di alterarla finisce per doverci sempre fare i conti. Prova ne sia che finalmente si comincia (timidamente…) a prendere atto che in Italia nessuna donna vuole donare i propri ovociti, e nessun uomo il suo seme, per dar la vita a un bimbo che la tecnica dell’eterologa renderà figlio d’altri ma che resterà per sempre “mio figlio”, per quella metà che proviene da me.
Il senso della filiazione e della maternità-paternità non è un accidente culturale destinato a essere rottamato da mentalità e costumi mutati, ma la struttura più intima della nostra umanità. Di chi siamo figli? Chi abbiamo generato? Impossibile sottrarsi a queste domande, che restano incise nella mente e in ogni nostra cellula. Non c’è campagna d’opinione, sentenza o volontà politica che tenga. Quella dei gameti per l’eterologa non è e non può essere donazione – se non in casi assolutamente singolari – ma commercio: se vuoi un ovocita, o una provetta di seme, devi pagare. Solo una congrua retribuzione, e uno stato di necessità, possono silenziare (per quanto tempo, e quanto profondamente, non sapremo mai) la voce che sgorga dalla piega più intima del nostro essere.
Dopo i primi proclami, in Toscana – l’avanguardia delle Regioni pro-eterologa – hanno preso atto che nessuno “dona” quel che dà la vita a un figlio: per soddisfare la domanda, alimentata dall’irresponsabile concetto che il figlio sia un «diritto incoercibile» (nemmeno fosse una proprietà), si deve importare dall’estero, pagando 2.800 euro per ovocita e 400 per campione di sperma. Questo dice il mercato. Non chiamatelo dono. Mai più.