Il salame nasce d’inverno e muore d’estate. Almeno, per tradizione. Fateci caso: una volta, quando si macellava il maiale? A gennaio. Va bene, per la verità le case più povere provvedevano a farlo addirittura il novembre precedente, ma chi ne aveva la possibilità cercava viceversa di ingrassare ben bene il porcello. Giocoforza, da tutta quella carne si ottenevano salumi: pancette, prosciutti, coppe, salami. Tutto confezionato “a stretto giro”, come si suol dire.
Un salame dabbene quanto stagionava? Almeno tre mesi. Diremmo anzi che tre mesi erano proprio il minimo sindacale. Alle stagionature “morbide” e subitanee erano destinati i salamini più piccoli, quelli insaccati nel budello più stretto. Un bel crespone, minimo tre mesi doveva maturare. E un salame dal budello più spesso, come quello cucito che si usa a Varzi (Pavia), centro rinomatissimo nella produzione di salame crudo, superava di slancio questa tempistica. Un bel salume col budello cosiddetto “gentile”, quello tratto dalla parte finale dell’intestino del maiale, addirittura si prestava a essere lasciato in cantina almeno sei mesi. Col budello gentile, per dire, si fa l’arcinoto salame di Felino, famosissimo nella cittadina parmense ma diffuso in tutto il circondario e oltre. Nella bassa, a valle della via Emilia, lo stesso tipo di salame si chiamava (e si chiama ancora) semplicemente “Salame gentile”: un nome che rievoca tanto il tipo di budello utilizzato, quanto il risultato gustativo di rara eleganza. Un salame così, a tre mesi sarebbe fin troppo morbido. A sei mesi, viceversa, assume la giusta consistenza e, se tutto va come deve andare (ossia, se l’insaccatura è stata praticata coscienziosamente e la stagionatura svolta in ambiente adatto), libera la caratteristica “lacrima” e offre un sapore per nulla rancido o sgradevole.
I salami, in buona sostanza, si mangiavano da Pasqua in avanti. Pure oggi che li fanno tutto l’anno, si può farlo senza imbarazzo. Mettete un pergolato d’uva americana, un sigaro toscano, un mazzo di carte, un po’ di amici: un piatto di salame a fette spesse, da dividere con tutti, è un complemento che non ci sta per nulla male. Magari ci si può pure bere sopra: un Lambrusco fresco di cantina, magari, bello vivace. Una Barbera (al femminile, attenzione: lo faceva il Carducci e lo fanno in Piemonte, lo facciamo dunque anche noi) dell’Oltrepò o del Monferrato. Una Freisa d’Asti, con quella sensazione piacevole, tannica e amarognola. Basta poco per essere un po’ felici. Anzi, parecchio felici. Il salame però sia di quello buono. E pure il vino.