Qualche giorno fa un amico decisamente più giovane di me mi dice: «Sono angosciato, a Natale o a Capodanno ci sarà un altro attentato di sicuro. Tu che hai fatto tanti reportage in Medio Oriente e in altri posti pericolosi, spiegami come si fa a non avere paura. Insegnamelo!». Non ho potuto fare a meno di sorridere. Ma chi l’ha detto che io sono uno che non ha paura? Se qualcuno pensa di poterlo dedurre dal fatto che ho viaggiato in molti paesi in stato di guerra o particolarmente afflitti da terrorismo, criminalità e calamità naturali, sbaglia.
Le cose stanno all’incontrario: è proprio grazie alla paura che ho potuto fare giornalismo in regioni turbolente del mondo per quasi trent’anni, cominciando col Sudafrica al tempo dell’apartheid quando avevo 29 anni e concludendo, spero solo temporaneamente, con la Siria nel luglio scorso, quando di anni ne avevo 57. Dalla paura infatti nasce la prudenza, ed è la prudenza che ti aiuta a schivare i pericoli e a ritornare a casa intero ogni volta. Se non avessi paura non sarei prudente, e a quest’ora sarei sicuramente morto. Contrariamente a quanto pensano in molti, il coraggio non è il contrario della paura ma, come insegnava Aristotele, la giusta misura del sentimento di paura che si deve provare davanti al pericolo, alle minacce, all’ignoto, ecc. Chi ha troppa paura diventa prigioniero della vigliaccheria, chi ne ha troppo poca cade nella temerarietà. Entrambe sono vizi, ugualmente distanti da quella virtù che è il coraggio. La virtù sta nel mezzo, dicevano i Romani riprendendo il concetto dall’Etica Nicomachea di Aristotele, e il coraggio sta nel mezzo di un ideale segmento che agli estremi ha la codardia e la spericolatezza. Il codardo non conoscerà mai nulla della vita e non otterrà mai alcun risultato, perché non rischierà mai nulla, mentre il temerario fruirà per poco dei suoi acquisti, perché presto si farà male o perderà la vita a causa della sua incorreggibile imprudenza. Il coraggioso invece farà esperienza, si arricchirà, e potrà anche trasmettere ad altri le cose preziose che ha raccolto e maturato. Il coraggioso produce e distribuisce patrimonio, il vigliacco e il temerario non producono nulla o se lo producono non fanno in tempo a distribuirlo.
Dunque ogni volta che parto, sì, ho paura. Più la destinazione è pericolosa e più provo paura. Non provo paura di morire, questo no. Da un po’ di tempo a questa parte questa paura non la provo più. Passati i cinquantacinque anni, le prospettive obiettivamente non sono entusiasmanti e l’orizzonte delle attese si restringe. Non ci si può più immaginare forti e vincenti, le capacità fisiche e il ruolo sociale sono destinati a ridursi progressivamente. Questo presenta anche vantaggi. Quando la prospettiva è di avere 65 anni dieci anni dopo, e poi 75 anni altri dieci anni dopo, e poi 85 altri dieci anni dopo, si guarda alla vita in tutt’altra maniera da prima. Si dà tutto, ogni giorno, senza pensare al futuro. Ci sente più liberi e si ringrazia della ricevuta libertà. Un aspetto di questa libertà consiste proprio nell’attenuazione dell’istinto di autoconservazione. L’idea della mia morte mi fa tristezza, non paura. Chi muore non può più fare nulla in questo mondo, non può più difendersi: dipende completamente dalla pietà dei vivi. Ci rattrista il pensiero che saremo dimenticati, che i viventi si abitueranno a fare a meno di noi. Il mondo continuerà anche senza di noi, dimostrazione della nostra strutturale superfluità rispetto alla persistenza del suo movimento. (Attenzione: siamo superflui rispetto alla continuazione del suo moto, non rispetto alle sue caratteristiche genetiche: le nostre azioni e i nostri atti generativi hanno contribuito a determinare quel moto, e questo contributo resterà fino alla fine dei secoli).
L’altra fonte di tristezza è il pensiero che non potremo impedire la manipolazione della nostra memoria: saremo celebrati o esecrati, saremo citati a sostegno di un’idea o di decisioni prese da altri, e noi non potremo confermare o smentire, non potremo indignarci o ribellarci, non potremo dire una parola risolutiva. Penso a una personalità come Pier Paolo Pasolini, che dopo la morte è diventato suo malgrado icona per tutti gli usi, citato a destra, a sinistra e al centro senza rispetto e attenzione sincera per le sue produzioni intellettuali e creazioni artistiche, tirate di qua e di là da chi gli è sopravvissuto a fini strumentali di legittimazione politica e/o intellettuale. Se Pasolini fosse vivo, sicuramente prenderebbe a calci il 90 per cento di quelli che lo citano e rileggono le sue opere intellettualisticamente o politicisticamente.
Per tornare a noi: ciò che fa paura al giornalista che va in un teatro di guerra o di altra minacciosa calamità non è l’eventualità della morte. Ma l’eventualità della ferita di guerra, del veder scorrere il proprio sangue davanti a sé, della menomazione permanente, dell’amputazione, della cecità, dell’arresto, della detenzione, del rapimento e della conseguente prigionìa, dell’abuso fisico, della tortura fisica e psicologica. Queste sì che sono cose che fanno paura! Non si può non averne paura. Il punto, allora, non è non avere paura, ma non farsi sopraffare dalla stessa.
Come diceva Giovanni Falcone (un’altra personalità la cui opera e la cui memoria sono state cento volte strumentalizzate dopo che era morto e non poteva più replicare): «L’importante è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, è incoscienza». Questo tipo di coraggio (non lasciarsi sopraffare dall’umano sentimento della paura) lo si impara? Sì. E come per la maggior parte delle cose che si imparano, ci vogliono dei maestri e degli ispiratori. Come si cambia nella vita? Frequentando qualcuno piuttosto che qualcun altro. In università ascoltando la lezione di un professore piuttosto che di un altro, leggendo il libro di Tizio anziché quello di Caio, guardando una trasmissione televisiva anziché un’altra. Uscendo con certi amici anziché con altri, andando in vacanza con alcuni anziché con altri, invitando a cena a casa tua quelli anziché questi. Andando a Messa da un prete anziché da un altro, frequentando una catechesi anziché un’altra, condividendo con una comunità anziché con un’altra.
Chi va con lo zoppo impara a zoppicare, come dice il proverbio, ma chi va col virtuoso impara la virtù. Perché la virtù si trasmette per prossimità: stando vicino a chi la possiede, se ne viene a poco a poco informati, nel significato letterale del verbo informare: dare forma e dunque, al passivo, ricevere una certa forma. Non è un contagio, cioè qualcosa che si trasmette istantaneamente in un certo momento del contatto, è piuttosto qualcosa simile al lavoro dello scultore: il maestro, che sia un amico o una persona a te gerarchicamente o socialmente superiore, agisce su di te con la sua influenza come uno scultore che dal blocco di materia fa emergere una forma.
Per dare un’idea concreta di quello che sto dicendo, a chi mi interroga sull’argomento spesso racconto un dettaglio delle mie missioni nell’Iraq settentrionale. La prima volta che mi ci sono recato è stato nel gennaio 2008, quando il paese era già abbondantemente sprofondato nell’anarchia susseguente all’occupazione anglo-americana. Avevo preparato la missione con tutti gli accorgimenti possibili per minimizzare i rischi di rapimento e di restare coinvolto in combattimenti. Ma mentre i problemi trovavano soluzione e il momento della partenza si avvicinava, la paura cresceva e aveva immobilizzato la volontà. Non stavo facendo più nulla di quello che si doveva fare perché la missione diventasse realtà. Ci volle la risolutezza del direttore per farmi salire la scaletta dell’aereo, in partenza da Francoforte a mezzanotte in punto, che mi avrebbe portato in Kurdistan.
La penultima volta che sono tornato sul posto è stato nell’agosto dello scorso anno, all’indomani dell’offensiva dell’Isis che aveva costretto i peshmerga a ritirarsi dalla piana di Ninive che avevano occupato nel 2003 e la popolazione cristiana e yazida a fuggire alla disperata in piena notte. Rischiava di andare a monte il reportage che avevo progettato dopo la caduta di Mosul nel giugno precedente: volevo incontrare i profughi dalla città, cristiani e non cristiani, che avevano trovato ospitalità nelle cittadine cristiane della piana di Ninive. Saltarono voli prenotati da tempo e punti di appoggio sul posto. Bisognava riorganizzare tutto, in condizioni logistiche e di sicurezza precarie e a rischio di ulteriore degradazione. Dall’Iraq gli amici cristiani rispondevano al telefono: «Non venire: è troppo pericoloso. Noi stessi non sappiamo che ne sarà di noi fra una settimana». Risposi che avrei fatto di tutto per partire e che mi sarei organizzato in modo da non pesare su di loro: tutto il mondo doveva sapere cosa stava succedendo, dovevamo disturbare la tranquillità di tutti quelli che si riposavano sotto gli ombrelloni al mare.
E così fu. Scesi, incontrai, intervistai e filmai i profughi che si accalcavano intorno alle chiese e dentro a rifugi di fortuna in tutto il Kurdistan, arrivai fino alla prima linea dove i peshmerga combattevano contro l’Isis. Domanda: cosa era successo nei sei anni e mezzo fra il gennaio 2008 e l’agosto 2014 per trasformare la pecora in leone (è solo una metafora, ben altri sono i leoni, Aslan non sono io ma vi assicuro che esistono nella realtà e non solo nel regno fantastico di Narnia)? Nessun evento puntuale, niente di speciale: semplicemente avevo approfondito certi rapporti, ma soprattutto avevo fatto ininterrottamente memoria di tutte le grandi persone (grandi anche quando erano piccole agli occhi del mondo) che avevo incontrato e raccontato anche prima del 2008 e che ho continuato a incontrare e raccontare dopo. Viventi e non più viventi. Giornalisti e sacerdoti assassinati, vescovi rapiti e lasciati morire, ragazze cristiane stuprate e sgozzate, a causa della testimonianza resa a Cristo, alla dignità umana, alla verità integrale. Per non essersi piegati davanti al male e all’ingiustizia.
Sono i miei amici in Cielo, ed è soprattutto grazie a loro che in me è maturata negli anni quella particolare misura della paura che si chiama coraggio. Perciò cari amici per quanto riguarda il coraggio in epoca di minacce terroristiche, non ho che da darvi due consigli: tenetevi alla larga dai codardi, in tutte le loro pluriformi sembianze, e tenete viva in voi la memoria di tutti i vostri maestri e amici che stanno dando o hanno finito di dare la vita per amore di Dio e del prossimo. Risultato garantito.