Pubblichiamo la rubrica di Marina Corradi contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Milano, febbraio. Certe mattine mi domando se accada in ogni casa che la maniglia della porta d’ingresso, quando la si chiude con forza, rimanga nella mano, luccicante, beffarda. Basta ripararla, direte, ma io già ho chiamato il ferramenta, che è venuto e ha bloccato la maniglia con una vite, e per questo ha voluto novanta euro, e io gli ero stata perfino grata.
Senonché, dopo pochi giorni la maniglia ha ripreso a staccarsi, soprattutto quando qualcuno, nella fretta, si tira dietro più forte la porta. Seccante poi quando accade con un ospite, che restandosene con la maniglia in mano potrebbe pensare che la nostra casa vada in pezzi – e forse non sarebbe così lontano dal vero.
Certe mattine mi domando poi se accada anche nelle case degli altri che il gatto si faccia le unghie, rigorosamente, sul divano nuovo, o che nel cesto della biancheria da stirare restino per mesi ciuffi di calzini irrimediabilmente spaiati, inutili e inutilizzabili, monumento alla nostra pigrizia. E succederà anche agli altri che lo spremiagrumi sparisca senza lasciare traccia di sé, nel nulla, ingoiato da un buco nero?
Vedo nelle foto della pubblicità altre case, “living” sobri e armoniosi, senza un giornale in giro, né un paio di ciabatte: solo lussuriosi divani e morbidi plaid, e pavimenti in cui ci si può specchiare. Vedo cucine dalla linea pura, firmate da grandi designer, coi piani di acciaio lucenti e sideree spie di superelettrodomestici lampeggianti, a confermare che tutto funziona perfettamente – cosa che non si potrebbe certo dire dei nostri.
So che i figli adorano la casa della nonna, dove ogni cosa, forbice, tagliaunghie o colla, ha il suo posto, e si trova sempre; ma non ci posso far niente, deve essere genetico il mio disordine, d’altronde mio padre dimenticava gli occhiali in freezer, e li si ritrovava, un mese dopo, i vetri infranti, sepolti nel ghiaccio come Ötzi, la mummia del Similaun.
Stamattina dal divano su cui sono immobile, un piede ingessato, contemplo inerme il nostro caos, e so che in bagno ci sono sei tubi di dentifricio, di cui quattro lasciati aperti e ormai fossili. E certo, potrei buttarli via, ma a che serve? Fra dieci giorni sarà tutto come prima. Ma chi vivrà, davvero, in quelle case perfette, senza un pelo fuori posto, chi cucinerà in quelle algide cucine i cui piani – mi dico a consolarmi – somigliano alle lastre d’acciaio dell’obitorio, in Ncis?
Però, mi accorgo, la nostra casa è viva. Con la scatola del presepe che nessuno porta in cantina fino ad agosto – quando c’è da tirar fuori l’ombrellone. Col grande crocefisso di legno in cucina e, sotto, le tacche della statura dei figli. Da 80 centimetri a 180: quante storie, in quel pezzo di muro ingrigito che non ho mai permesso mai di rimbiancare. Di modo che stamattina, impotente mentre un gatto si fa coscienziosamente le unghie sul divano, capisco che non cambierei questa casa con nessuna. Perché belle sono le case in cui si vive in tanti, nel casino, amandosi, litigando, perdendo le cose, mandandosi a quel paese. Belle, e quanto, sono le nostre case, quelle vere.
Foto vestiti da Shutterstock