Pubblichiamo la rubrica di Marina Corradi contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Milano, ottobre. Il muro è dipinto a nuovo, intonso, bianco. Assolutamente liscio. Dalla finestra entra una luce incolore, e quasi della stessa opalescenza smorta della parete. Nella stanza, su un linoleum grigio, due letti di ferro, due comodini, una sedia. Appeso in alto, un televisore spento. Dal cortile, nessun rumore; l’unico suono è quello lieve dell’ossigeno che scorre, come acqua, nei respiratori.
Un ospedale nuovo di zecca, luminoso, niente di più che si possa domandare. Solo, come è maledettamente bianco, questo muro. Nel silenzio che si allarga nella stanza e mette a disagio l’occasionale visitatore, quasi fosse caduto nel vuoto, quel muro non è di alcun aiuto. Vergine, candido, non offre disperatamente nulla da osservare.
Sarebbe bello, quando si è ricoverati per una non facile guarigione, o quando si fronteggia il volto muto di un malato, avere qualcosa su cui posare gli occhi: per interrompere il circolo dei pensieri che tornano e ritornano su se stessi, come un disco rotto. Personalmente, mi dico, mi accontenterei anche di una crepa nel muro, in un’ora insopportabilmente taciturna come questa: giocherei a rintracciare nella sagoma una forma. Apprezzerei perfino una ragnatela nell’angolo di un soffitto, in alto; qualora poi ci fosse anche il ragno, con il suo andirivieni metodico e sapiente, mi sarebbe davvero di compagnia. Nemmeno le nuvole invece ci sono oggi, nel chiarore esangue del cielo, constato, volgendomi verso la finestra. Quanto al televisore, meglio sia spento. A quest’ora del pomeriggio rovescerebbe le sue parole leggere nella stanza: e sarebbero gonfie e vane, qui dentro, come bolle di sapone.
Ma, questo muro bianco, quanto è scivoloso. Lo sguardo ci si arrampica e riscivola giù come una mosca su un vetro bagnato. Si vorrebbe proprio aver qualcosa su cui posare gli occhi, quando si è immobili a letto o quando si sta, zitti, accanto a un malato. Si vorrebbe, davanti agli occhi, qualcosa di bello. Nell’Hotel – Dieu di Beaune, in Borgogna, uno dei primi ospedali sorti in Occidente, sulla parete in fondo alla camerata c’è uno splendido polittico che si apre come le scene di un teatro. Raffigura il Giudizio Universale. Quando un moribondo entrava in agonia, le suore infermiere di Beaune, in una somma carità, gli spalancavano davanti questa bellezza.
Non ci sarebbe, in questa stanza nuova, bisogno di così tanto. Basterebbe la riproduzione di un quadro, su cui gli occhi possano indugiare.
Io sceglierei un paesaggio di William Congdon, una di quelle Venezie con la sagoma di San Marco evanescente come una reggia celestiale, su cui dal cielo cola un pallido oro. Lì sopra mi si aggrapperebbe lo sguardo, come su una parete un rocciatore, lì si incanterebbe, sognando geometrie arcane d’altri mondi. Ci vorrebbe davvero qualcosa di molto bello, davanti agli occhi degli uomini malati. Ma scivola ancora invece il mio sguardo su questo lindo perfetto muro bianco; e torna a girarmi, monotono, dentro, un vano disco rotto.
Foto Ansa