Avevo vent’anni. Passavo da Roma. Era una giornata luminosa e caldissima. Dopo ore a piedi, ammaliata, tra il Tevere e piazza Navona, cercavo un po’ di fresco e di ombra. Sono entrata in una chiesa, io che nelle chiese non mettevo mai piede, senza saperne il nome. Volevo solo un angolo di quiete. Dalla mia panca ho notato un sommesso fluire di visitatori verso il fondo della chiesa. Curiosa, li ho seguiti.
L’ultima cappella sulla sinistra era nell’ombra. La luce si accendeva solo infilando delle monete in una macchinetta. Un tedesco mise 50 lire nella fessura, e la cappella si illuminò. Allora mi sono trovata di fronte alla Vocazione di San Matteo di Caravaggio, di colpo, senza saperne niente.
È stato come imbattersi in un affascinante sconosciuto. Mi ha incantato la luce, come Caravaggio usava e forgiava la luce. E il gesto di Cristo, quieto eppure imperioso. Ignorante com’ero, ho ritenuto che Matteo, il pubblicano, l’esattore delle imposte, fosse il ragazzo ritratto a capo chino su una manciata di monete. Mi commuoveva quel ragazzo così cupo, così concentrato sul suo povero tesoro, che nemmeno si accorgeva di Cristo che lo chiamava. La luce si spense. Ansiosamente infilai nella macchinetta le lire che avevo, per continuare a guardare. Mi ero innamorata. Da trent’anni, ogni volta che torno a Roma, non dimentico mai di andare a trovare il “mio” Caravaggio, a San Luigi dei Francesi.
E dunque quando ho letto che il cardinale Bergoglio, passando da Roma, andava a contemplare la Vocazione di Matteo a San Luigi dei Francesi, ho sussultato: Santità, avrei voluto dire, quello è il “mio” Caravaggio. Sono stata quasi gelosa: come quando scopri che un amico caro ha, a tua insaputa, un altro amico, molto più grande.
Poi, ho scoperto che a San Luigi dei Francesi siamo in tanti, a tornare. Quella mano di Cristo, quel fascio di luce dorata seduce e tocca il cuore. Come in un tacito desiderio che anche a noi accada, di essere scelti a quel modo. Così che nell’ombra di San Luigi dei Francesi si va, più che a ammirare un capolavoro, quasi a pregare.
Ho poi appreso che, secondo i più autorevoli critici, Matteo era invece il vecchio con la barba. Me ne sono infischiata: il “mio” Matteo era il ragazzo assorto sui suoi inutili talenti. Con una certa soddisfazione apprendo ora che il cardinale Bergoglio la pensava a questo stesso modo. D’altronde, mi pare perfettamente naturale, se Matteo era un esattore delle imposte, uno avvinghiato al denaro, che Caravaggio lo ritraesse così, nell’atto di contare ancora una volta il suo oro. Disperato, nella coscienza che quel tesoro infine non gli bastava: il peccatore colto nell’istante del vuoto, da cui per grazia nasce un “sì”.
La Vocazione di Matteo, per me è un attimo sospeso sul nulla, prima di un abbraccio infinito. Per questo in tanti torniamo a contemplarlo, come misteriosamente convocati. Dalla potenza di un desiderio grande, fissato per sempre laggiù, nella cappella in fondo a sinistra, a San Luigi dei Francesi.