Ricevo e ospito volentieri nel mio blog questo post di @P1GA.
La botta è forte. Da persone non elette dal popolo ci sentiamo dire che la persona tra le più votate del popolo non potrà più rappresentarlo. Qui i distinguo e le cautele e i giusti pesi da attribuire si sprecano. Ma il punto è questo. La botta è forte e la rabbia pure. È forte anche la tentazione, soprattutto per chi deve al “condannato” il suo posto in Parlamento – non necessariamente in senso utilitaristico, ma in buona fede, come possibilità che gli è stata data di contribuire al bene comune – di minacciare la crisi di governo.
Difficile non comprendere tale tentazione. Perché sarebbe una bella beffa per il Partito (cosiddetto) Democratico. Non tanto perché è da anni che aspettavano di poter riprendersi la presidenza del Consiglio, ma perché – quasi come legge del contrappasso – si ritroverebbero con in mano un pugno di mosche a causa del fatto che il loro più acerrimo avversario, l’incarnazione dell’ossimoro democratico che fa stare insieme l’imputato e il capo di governo, tutto a un tratto diventa condannato proprio quando è loro alleato, rompendogli le uova nel paniere.
Insomma, io li capisco i dimissionari di questi giorni. Dà loro troppo gusto vedere i (sempre cosiddetti) democratici pendere dalle labbra dei berluscones. Vederli supplicare tirando in ballo il bene comune, la stabilità del paese, la volatilità dei mercati, addirittura la troppa personalizzazione (questa poi…), eccetera.
Ma il (cosiddetto) popolo della libertà, non può e non deve farsi prendere dall’istinto. Non può avere come unica guida il consenso dell’elettorato. È una pratica già abbastanza presente altrove (basti guardare al sindaco di Bologna che, prima, per non far saltare il bilancio del Comune si allea con la Chiesa nel referendum sulle risorse alla scuola paritaria; poi, rincorre i voti persi auspicando aperture sui diritti gay).
E la soluzione non può neppure essere rianimare Forza Italia.
«Oggi l’immagine di un modello politico alternativo, fosse anche il più bello, non è quello che sarebbe veramente in grado di entusiasmare uomini e società, di destare un moto politico reale. […] La nascita di un modello politico migliore deve prendere le mosse da un più profondo cambiamento esistenziale della società».
Queste parole – scritte da Václav Havel, già presidente della Cecoslovacchia, nel 1978 – valgono anche per l’“anomalia italiana”.
Le posizioni nel dibattito politico sono ormai talmente cristallizzate – e certamente la sentenza della Cassazione non ha mitigato il fenomeno – che un nuovo partito non sarà mai nuovo. Non sarà Forza Italia a far capire ai magistrati che non sono loro i custodi della moralità, a impedire che questa convinzione togata sia cavalcata dai moralisti-opportunisti di turno.
Occorre quel “cambiamento esistenziale”, sapendo che non saranno i “sistemi perfetti” denunciati da Eliot o il miraggio delle Riforme a permetterlo, il cui terreno deve essere “pre-politico”, cioè libero da obiettivi politici, per quanto giusti e condivisibili. Deve emergere infatti la totale e disinteressata (perché libera) ricerca del vero e del giusto, con la speranza che tale tensione sia più contagiosa del caproespiatorismo strisciante.
È auspicabile e desiderabile, quindi, che mentre il governo Letta continui i suoi ironici tentativi (tra i quali il più importante è far parlare Pd e Pdl), nasca un dibattito con la prospettiva di un ideale, ancorato a una concezione positiva e non più sospettosa della persona. È ormai il tempo di cambiare le armi, la guerra non è più politica, ma culturale. Se il “condannato” favorisse questo, sarebbe decisamente più efficace – anche se non immediato – che riproporre il programma di Forza Italia del 1994.